Giampiero Arciero
Sulle tracce di sè
2006 Bollati Boringhieri, Torino
Recensione di Michele Alessandrelli
(Dipartimento Filosofia Antica, Università “La Sapienza” Roma)
Questo libro avvincente rappresenta forse il punto più alto dell’attività scientifica e terapeutica di Giampiero Arciero, cofondatore insieme a Vittorio Guidano dell’IPRA, (Istituto di psicoterapia post-razionalista) e suo attuale direttore. Nell’immagine delle tracce, che il titolo suggestivamente evoca, si raccoglie il cuore dell’originale e colta riflessione sull’identità personale avviata da Arciero molti anni fa, riflessione che ha trovato la sua prima importante articolazione nel libro Studi e dialoghi sull’identità personale (Boringhieri 2002) del quale il presente volume intende essere il seguito e il naturale sviluppo.
La riflessione di Arciero porta a compimento il fondamentale lavoro di Vittorio Guidano, raccogliendone così la difficile eredità scientifica di autentico pioniere del cognitivismo psicoterapeutico internazionale e costituendo una nuova piattaforma per la psicologia costruttivista. Sviluppando alcune notevoli intuizioni fenomenologiche di Guidano, penso in particolare alle sue “Organizzazioni di Significato Personale” Arciero propone un vero e proprio salto di paradigma rispetto sia al cognitivismo classico che a quello post-razionalista, salto che molto deve alla sua formazione individuale. Si tratta di un modo completamente nuovo di intendere il sé e la sua identità.
La visione da cui Arciero prende le mosse e contemporaneamente si allontana ha i suoi teorici più raffinati e consapevoli in Immanuel Kant e Paul Natorp. Essa si caratterizza per il modo peculiare di intendere il rapporto tra esperienza immediata e spiegazione di essa. Kant, e Natorp sulla sua scia, concepivano l’esperienza come muta e discreta, incapace di generare significati da sé, intelligibile solo nel dominio della riflessione che l’organizza in un quadro unitario, in un ritratto categoriale che non altera e non perde i suoi tratti essenziali nel corso del tempo. Arciero rintraccia una difficoltà insuperabile in questo modello: l’identità che esso attinge è impersonale, astorica, dissanguata, possibile solo nella stasi della riflessione egologica, impossibile nell’ebbrezza del vivere, che è un accadere sempre al dativo o accusativo, mai al nominativo della persona. L’esperienza così intesa muore e decade come polo della costruzione identitaria rendendo impossibile tale costruzione.
Arciero concepisce dialetticamente e dinamicamente l’identità, come identificazione tra esperienza e sua riconfigurazione simbolica, laddove Kant e Natorp la fissavano nella presa categoriale di una coscienza sovrana e padrona del mondo, che nel mondo trova sempre e solo se medesima. La chiusura dell’esperienza nel tempio impersonale della coscienza sembra rappresentare il punto di partenza del nuovo umanesimo promosso da Arciero. Coscienza tornata in auge come problema e oggetto tematico grazie alla straordinaria rivoluzione tecnica degli anni novanta che ha reso per la prima volta possibile lo studio del cervello vivo e attivo. L’inconcepibile diviene finalmente possibile: l’accesso diretto, percettivo al substrato del mio sentire. Arciero si appropria di questa rivoluzione non riducendo la mobile e polimorfa superficie dei vissuti ai loro correlati cerebrali (alla Changeux per intenderci) ma ponendosi il problema dell’effetto e dell’impatto che questo accesso diretto al cervello vivo avrà sulle coscienze degli uomini. Rilevando nella coscienza incarnata plasticità malleabilità e sensibilità al reale, Arciero approda naturalmente all’intenzionalità come caratterisca centrale della soggettività, l’elemento comune a ogni forma di esperienza vissuta. L’intenzionalità fa perdere alla coscienza «il diritto di cittadinanza nella testa per ritrovar-si sempre “al di là di …”, oltre sé stessa. Io sono presso l’intentum, l’oggetto che ho di mira nella mia intenzione: e così sono già sempre fuori di me». La fenomenologia espropriando, sottraendo il mondo dal chiuso della coscienza, lo impone come polo irriducibile e originario. L’intenzionalità riscatta il mondo e insieme al mondo l’esperienza che ne facciamo, che è sempre esperienza di un incontro, di una correlazione, in cui ci riveliamo a noi stessi e contemporaneamente patiamo la rivelazione del mondo.
Ma la fenomenologia, nella sua declinazione husserliana, se da un lato soddisfa, come ricerca eidetico-riducente, il requisito di oggettività scientifica, garantendo così lo status di disciplina scientifica allo studio della soggettività che Arciero vuol fondare, dall’altro sembra incapace di accedere in maniera soddisfacente all’essenza dell’uomo, che è storica. È così che Arciero, sulla scia di Heidegger e Ricoeur, coniuga fenomenologia ed ermeneutica, ed è questo connubio felice a permettergli di esaltare proprietà della correlazione originaria di coscienza e mondo che l’inclinazione epistemologica e teoretica della riduzione non poteva cogliere. Il mondo presso cui sempre stiamo si rivela così in possesso delle proprietà della significatività e dell’alterità. È attraverso una ermeneutica fenomenologicamente orientata che Arciero approda a un modo completamente diverso rispetto a Kant e Natorp di intendere l’esperienza immediata. Da muta e discreta essa si impone come incarnata, originaria, anteriore alla coscienza riflessiva, come generatrice di significati preriflessivi e antepredicativi, compiuta, fluida e non immobilizzabile in un ritratto categoriale (onde la sua alterità). La “coscienza di…”, anteriore alla coscienza di sé, si costituisce silenziosamente nell’esperienza preriflessiva del mondo e come tale non è generalizzabile, è quindi storica, unica.
Ma come accedere a una coscienza così intesa? Come costruire un discorso oggettivo su di essa? È a questo punto che entra in scena il linguaggio come generatore di discorsi e di narrazioni, cui Arciero, attraverso un’originale rilettura e comprensione della distinzione fregeana tra Sinn e Bedeutung, restituisce uno statuto drammatico (nel senso letterale della parola) suscitando nel suo seno la tensione tra il suo essere (il linguaggio) evocatore di esperienze uniche e irripetibili e la capacità che ha di svincolare da esse il senso dei suoi discorsi rendendolo identificabile e reidentificabile come il medesimo da individui diversi in tempi e situazioni diverse. È così che l’ermeneutica fenomenologica può trasformarsi in disciplina terapeutica praticata con la sensibilità del medico (attento alle invarianze) e dello storico (attento agli indizi) e le tracce di sé acquistano una rilevanza oggettuale capitale. È così che il polo che i cognitivisti perdevano compremettendo il successo delle loro costruzioni identitarie viene ripristinato in tutta la sua pienezza di significato e alterità ontologica. Le tracce hanno questo di inquietante: «Chi ha lasciato le tracce e si pone sulla via di quelle tracce sono la stessa persona».
Le tracce sono i monumenti, i lacerti che rimandano all’esperienza spesso perduta, vagamente o malamente ritenuta che gli esseri umani hanno fatto di se stessi e del mondo in cui si sono trovati, da sempre, scaraventati e situati. Esse evocano un’unità di temi e significati costituitisi prima di ogni riflessione, l’unità del si è, di quel che si è. Questa unità grida per essere detta e raccontata. Tuttavia per la loro labilità ed evanenscenza, le tracce non rimandano univocamente a significati trasparenti. Per questo motivo i loro significati vengono ogni volta faticosamente negoziati nel confronto tra paziente e terapeuta. In altri termini il significato delle tracce si costituisce sempre intersoggettivamente, ponendosi allo slargo tra esperienza vissuta e senso condiviso.
È pertanto nel racconto che a quelle tracce restituisce l’unità di una storia che si costuitisce l’identità come identità narrativa. Arciero pone così le fondamenta di una vera e propria scienza dell’esperienza in prima persona e di una ridefinizione in chiave storico-ermeneutica della prassi psicoterapeutica. L’oggettività del Sinn non è incompatibile con l’unicità della Bedeutung, anzi la richiede come suo complemento dialettico. È precisamente nella frattura tra Sinn e Bedeutung e nel farsi il Sinn incomunicabile che si consuma secondo Arciero la tragedia dello psicotico. Il richiamo alla storia diviene così in Arciero un appello alla massima responsabilità verso se stessi e verso l’altro (intenso il suo dialogo con Levinas). Gli ultimi due capitoli del libro, forse i più belli e i più ispirati, interrogano le questioni capitali del carattere, della persona e dell’agire. In particolare vorrei segnalare l’interpretazione del fr. 119 D.-K. di Eraclito, ethos anthropo daimon, splendidamente tradotto da Arciero così: «il carattere, destino dell’uomo; il destino, carattere dell’uomo». Il modo di vivere di un uomo ne determina la sorte, ma gli eventi del vivere determinano il carattere di quell’uomo. Apertura e chiusura in un accadere sempre al presente, mai al nominativo, che è il nostro accadere, accadere che ci rinnova e riconferma, contemporaneamente. Molto suggestiva e stimolante anche la lettura di Genesi 32, 23-33 che permette ad Arciero di indagare il ruolo del trascendente nella costituzione della personalità. Afferma Arciero: «Guardare l’altro in volto (come accadde a Giacobbe con il volto di Dio), facendo posto alla sua libertà, libertà che accomuna e che separa, fonda la relazione con il trascendente che è prima di tutto, prima di ogni dio, l’esperienza dell’altro, compreso come irriducibile alterità».
Prima di concludere questa breve e inevitabilmente incompleta presentazione del libro di Arciero vorrei menzionare la sua originale declinazione del rapporto tra carattere, dominio della necessità e del fato, e persona, sorgente di libertà. Eloquenti le considerazioni che seguono: «In questo processo di personalizzazione, il carattere, lungi dal manifestarsi come una struttura immutabile inchiodata alle stelle o ai cromosomi, è rimesso in gioco nell’evento dell’esserci. Il carattere diventa così il mio carattere, che ho scelto e di cui sono direttamente responsabile; la storia che in esso era custodita, attraverso questo divenir mio, è rimessa in scena in un racconto dietro a cui non mi nascondo: di cui sono artefice». Proprietà e trascendenza, queste le cifre dell’umana libertà, secondo Arciero. Infine, sembra essere proprio la sua particolare e originale comprensione della Bedeutung fregeana a condurre Arciero sulla via di una stimolante spiegazione dell’origine del linguaggio. Se è vero che la Bedeutung rimanda a un’esperienza che si costituisce nel suo significato prima di ogni riflessione, non sarà più possibile considerare gli enunciati i portatori primari e originari di significato, ma si renderà in qualche modo necessario superare la sfera proposizionale e indentificare in quella antepredicativa dell’agire la fonte primaria del significato.
Da questo punto di vista, Arciero considera della massima importanza e ricca di fertili implicazioni la scoperta relativamente recente dei neuroni “specchio” a opera di Rizzolatti e Gallese e della squadra de neuroscienziati di Parma. Come il linguaggio attraverso il Sinn si svincola dall’accadere puntuale rendendosi divulgabile e comunicabile nei significati che genera e associa alle parole, così sembra essere stato proprio il significato condiviso dell’agire il modello da cui il linguaggio si è sviluppato nella sua dimensione pubblica che noi tutti pratichiamo come membri della comunità umana e linguistica. Stimolante e “aperto” il dialogo con Vittorio Gallese, uno dei neuroscienziati di punta della scuola di Parma capitanata da Rizzolatti, dialogo che permette di caratterizzare l’umanesimo ermeneutico di Arciero come totalmente libero da pregiudizi nei confronti delle scienze neurologiche, benché molto scrupoloso nella difesa dell’unicità e irripetibilità di ogni esperienza umana di vita.