Michele Alessandrelli, PhD

Ricercatore al Consiglio Nazionale delle Ricerche (C.N.R.) presso l’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee, Roma. Collaboratore al ERC Starting Grant 241184-PHerc, ‘Interactive edition and interpretation of various works by Stoic and Epicurean philosophers surviving at Herculaneum’.

Contemplando la copertina dell’edizione americana di questo libro (Selhood, Identity and Personality, edito da Wiley-Blackwell nel 2009 e premiato dalla Medical Journalists’ Association Open Book Awards nel 2010) ci s’imbatte in qualcosa di paradossale. Nelle intenzioni dei due autori una riproduzione di Study of George Dyer di Francis Bacon avrebbe dovuto accogliere il lettore quale via privilegiata di accesso al loro libro. Invece, risalta solo la cornice con lo sfondo del quadro abbandonato dal corpo del suo protagonista. La via di accesso al libro, il corpo vivo come matrice di senso, si è dileguata. Al lettore va incontro la metà spezzata e ferita di una totalità che va ricomposta, l’accadere di George Dyer nel suo mondo, un unico fenomeno originario. A dire il vero, forse senza accorgersene, Giamperio Arciero e Guido Bondolfi hanno in questo modo assicurato al lettore l’unico vero accesso possibile al loro lavoro. Accesso che deve potersi rovesciare in un impedimento, almeno iniziale. Ed è invitabile che sia così. Perché rivelare il corpo come matrice originaria di senso della cui intima essenza è parte il mondo in cui vive è il punto di arrivo e non di partenza, la vera posta scientifica, di questa ambiziosa opera a quattro mani. Era importante non nascondere questo antefatto baconiano al lettore italiano perché nell’edizione italiana del libro di Arciero e Bondolfi (Sé, Identità e Stili di personalità, Bollati Boringhieri 2012) non si fa più parola di questo accesso pittorico al “pensiero dominante” che lo attraversa da cima a fondo. Già Deleuze, nel suo volume su Bacon, con un’operazione di polizia spirituale aveva inscritto il corpo vivo nei registri della psicopatologia, forte, suo malgrado, di una precomprensione imbevuta di platonismo cartesiano che svaluta il corpo ad accidente meccanico ed anatomico che può essere riscattato soltanto dalla follia e dalle sue multiformi derive.

Ciò che colpisce nel libro di Arciero e Bondolfi è la consapevolezza ontologica del problema del corpo umano. Ridotto a cosa morta pensata alla stregua di una sostanza che permane sempre identica nonostante gli accidenti che la perturbano, la segnano e solo superficialmente la sfigurano, il corpo vivo ritrova finalmente se stesso nella comprensione fenomenologico-ermeneutica offerta da Arciero e Bondolfi. Gli esseri umani non sono sostanze ma accadono come persone. Hanno una storia, un mondo, che è parte costitutiva di quello che sono. Comprenderli esige la restituzione del loro mondo e della loro storia a oggetto degno di indagine scientifica. Esige l’istituzione di una scienza dell’unicità della persona, degna erede della phronesis aristotelica attuata però in una cornice ontologica di tipo biblico. Giorgio Agamben descriverebbe questa ontologia come manierista. Non pre-esistiamo come invarianti sostanziali al nostro accadere nel mondo ma siamo i modi o le maniere in cui accadiamo nel nostro mondo. Tale manierismo ontologico costituisce l’alternativa più radicale all’ontologia essenzialista della tradizione greca, scolastica e cartesiana. Di tale manierismo massimo esploratore è stato Martin Heidegger. Ebbene, è capitato raramente che di Heidegger e di una parte della tradizione (Ricoeur in primis) che a lui si richiama venisse fatto un uso così rigoroso e consapevole. Un uso che vede Heidegger contribuire alla messa in chiaro del fondamento ontologico di una scienza ontica quale è la psicologia. Lo stesso Heidegger, riandando a distanza di anni allo straordinario decennio fenomenologico che va dal 1919 al 1929, non si stancava di ripetere che era arrivato il momento di smettere di studiare il suo pensiero come un oggetto di erudizione filosofica e di iniziare finalmente a praticare l’accesso al problema dell’essere che egli aveva dischiuso. Ebbene, Arciero e Bondolfi, da psichiatri e pensatori, raccolgono questo compito.

Dalla considerazione della cosa che siamo (lascito oscuro dell’ontologica greca che precomprende l’uomo come una res) Arciero e Bondolfi passano alla considerazione del “chi” che ognuno di noi è (la Wer Frage heideggeriana). Questa consapevolezza sembra avere conseguenze pure sulla grammatica del nostro senso comune: noi siamo il corpo che abbiamo. Questa frase che sembra solo un modo di dire ad effetto presuppone una vera e propria rivoluzione copernicana in campo ontologico. È il “chi” incarnato che accade, unico, irripetibile e aperto al mondo, l’oggetto autentico e legittimo della psicologia, non il che cosa esangue, disincarnato e impersonale nelle varie declinazioni che la scienza medica e psichiatrica ha dato ad esso nel corso degli ultimi due secoli. Come tutti i grandi libri, anche questo ha la sua verità nei limiti che gli autori gli hanno saputo e dovuto assegnargli. La psicologia non è facilona retorica dell’umano ma, secondo il progetto di ampio respiro dei due autori, scienza dell’esperienza in prima persona. Come tale, ha bisogno di giustificare la persona (il chi incarnato) come oggetto degno di indagine a partire da criteri condivisi che sono quelli stabiliti dalla comunità scientifica. Essa non può accontentarsi di declamare la conoscibilità della persona. Essa non può rinunciare alle invarianze, a quei punti di riferimento oggettualmente stabili in cui la scienza, da Parmenide in poi, ha sempre riconosciuto la prerogativa principe del suo campo tematico. Il problema diventa allora come preservare la persona dall’aggressione spersonalizzante di queste invarianze, che rischiano sempre di scorporare la parte dal tutto, il corpo vivo dalla vita, l’essenza dall’esistenza, la malattia dal malato, l’uomo dalla sua storia e dall’esperienza incarnata che fa continuamente di se stesso (la Jemeinigkeit di Heidegger). Già, l’esperienza, questa sconosciuta.

A torto si è sostenuto che l’esperienza è qualcosa di stabilmente circoscritto e limitato alle condizioni spazio/temporali, contingenti, uniche e irripetibili, che l’hanno prodotta. Quelle condizioni dovrebbero definire per ciascuna esperienza degli stabili confini identitari. Al contrario, ogni esperienza, che è sempre significativa, distribuisce effetti, scagliona conseguenze lungo un arco di tempo vastissimo e assolutamente non anticipabile nei suoi limiti cronologici. Non esistono pertanto esperienze definitive nel senso di chiuse da ben precisi limiti cronologici. Esse sono piuttosto come solchi che non cessano di approfondirsi, allargarsi o farsi più angusti. In altre parole le esperienze che noi facciamo non sono entità statiche ma delle trame preriflessive dispiegantisi, i cui fili sono stati solo parzialmente dipanati. Nell’esperienza così concepita, cuore dell’esistenza di ognuno di noi, fonte autonoma e antepredicativa di significati vitali e sempre incarnati (che altro non sono che le emozioni) – e non muto fluire inarticolato cui solo la riflessione, a boccie ferme, può dare forma – Arciero e Bondolfi si son dati pena di rintracciare delle invarianze, degli ideal-tipi esistenziali (stili di personalità), in cui risalta la continuità fra la normalità e la psicopatologia e da cui bisogna partire per cogliere l’unicità della persona. Questi stili di personalità sono modi tipici dell’essere persona, e mai riduzioni della persona a meccanismo. Sono l’impersonale della persona, il tutti e nessuno presente in ognuno di noi. Dall’esperienza così concepita scaturisce quella che Arciero e Bondolfi chiamano la dialettica tra ipseità e medesimezza (quest’ultima sulla scia di Ricoeur epurata di ogni ipoteca sostanzialista), la dialettica cioè tra l’apertura al mondo cui siamo continuamente esposti e l’inclinazione stabile che nella vita di ognuno di noi assume quell’apertura. Non solo, questo modo di concepire l’esperienza restituisce al linguaggio tutta la sua grandezza, anche terapeutica e salvifica. Il linguaggio in questa prospettiva è ciò che porta a compimento l’esperienza stessa, è il suo coronamento. È attraverso il linguaggio che posso appropriarmi di quanto mi è accaduto e continua ad accadermi, che posso render mio quel che mio è, la mia esperienza gravida di significati da cui sono vissuto, agito e inclinato. Se non si comprende la portata ontologica sia dell’esperienza sia del linguaggio che la porta a parola, si rischia di fraintendere l’identità narrativa (tematizzata per primo da Ricoeur e ripresa da Arciero e da Bondolfi) come una sorta di articolazione arbitraria, estrinseca e ipersoggettiva della stoffa dell’esperienza. Da questa complessa costellazione ontologica deriva un modo nuovo di intendere la malattia mentale che, visto il credito di cui inizia a godere, costituirà probabilmente una della basi portanti della redazione del DSM V. La malattia mentale è ricondotta, nelle sue varie forme, alla storia viva del paziente, a una frattura nel rapporto tra ipseità e medesimezza, all’impossibilità di integrare nel vissuto pregresso (medesimezza) esperienze di portata inedita quando non inaudita. Da questo punto di vista, degno di nota è il fatto che nella stessa costruzione dell’esperimento neuro-scientifico s’incomincino a includere porzioni sempre più significative del contesto naturale di vita dei soggetti esaminati.

Questa convergenza spiega l’intenso dialogo che Arciero e Bondolfi instaurano con le neuroscienze, magistralmente giocato sul filo delicato dell’equilibrio tra arte dell’interpretazione ed evidenze empiriche non sempre univoche. La notevole versalità disciplinare dei due autori permette loro un uso molto fecondo della letteratura, che diventa una via formidabile per cogliere la dialettica tra ispeità e medesimezza nelle sue varie modulazioni (centrate ora sul corpo ora sulle varie figure dell’alterità). Il sapere dell’esperienza e della sua ricchezza di significati vitali nella sua dimensione pre-teorica si mostra per quello che è sempre stato: un’arte narrativa che dalla prime grandi narrazioni bibliche (esplorata da Arciero nel suo libro precedente, Sulle tracce di sé, sulla scia di Robert Alter) arriva fino ai giganti della narrativa ottocentesca (Kleist, Dostoevskij, Cechov, Flaubert) e novecentesca (Rilke, Musil, Joyce, Pirandello e Bernhard). Il merito fondamentale di questo libro sta nell’aver capito che gli esseri umani sono enti che vivono e muoiono di senso, di significati. Esistere significa essere aperti a significati che ci riguardano in quanto ci toccano e raggiungono ma non vengono da noi. L’uomo non è artefice del senso fondamentale della sua vita, lo può fare suo, se ne può appropriare, ma non lo può porre e generare da sé. L’uomo riceve senso in continuazione, ininterrottamente, secondo traiettorie che sono quelle disegnate dalle tante storie personali, uniche e irripetibili. Il fallimento di una vita è il fallimento del senso di quella vita. La connessione di senso all’interno della quale vivo mi precede sempre e sempre condiziona il modo in cui faccio esperienza di me stesso e degli altri. Il modo in cui mi sento è il modo in cui mi comprendo, il modo in cui sento gli altri è il modo in cui li comprendo. L’effetto che mi fa il fatto di vivere è il frutto di questa comprensione antepredicativa, preriflessiva, cioè non generata da un atto cosciente di riflessione (la cui importanza ovviamente qui non si vuole certo negare). Il sentirsi qui non ha niente di sentimentalistico, ma ha statura e rilievo ontologico, inerisce cioè alla sfera dell’essere e non ha niente a che fare con quella banalmente soggettiva dell’emotività spontanea e naturale. La sofferenza affittiva sempre s’inscrive allora in una connessione di senso che mi trascende, che mi abbraccia, che mi precede, come la luce che orienta i miei passi e mi indica la via. Essa non è mai banale e va sempre interrogata perché rimanda a e trae linfa da trame opache e velate. Vorrei chiudere con una chicca donata al lettore da Arciero e da Bondolfi. Se penso a una parola che inflaziona il nobile linguaggio del dolore, e viene usata con disinvoltura incurante e fuorviante (è ancora egemone nel DSM-IV), mi viene subito in mente somatizzazione. È il verbum ex machina invocato da profani e sapienti a spiegazione del misterioso legame tra sofferenza spirituale e sofferenza fisica. Il termine è la traduzione inglese della parola tedesca Organsprache (il linguaggio dell’organo) che nelle intenzioni orginarie dei suoi due ideatori (Stekel e Adler) significava la suscettibilità di un organo ad ammalarsi. La traduzione tradisce platealmente il significato originale della parola degrandandolo ad appello a una fantomatica conversione di stati emotivi in sintomi fisici. Arciero e Bondolfi, all’interno della loro analisi del fenomeno dell’isteria, riscattano la parola Organsprache in tutta la sua portata e profondità ontologica. Essa rimanda al quel sentirsi ostaggio del proprio corpo (la tachicardia per esempio), condizione patica generata dalla focalizzazione su stati interni che rende gli organi passibili di essere percepiti e quindi potentemente espressivi, anche loro protagonisti di una storia, unica e irripetibile, da narrare e di cui appropriarsi. E qui torniamo al nostro punto di partenza, all’accadere di George Dyer nel suo mondo, al corpo come matrice di senso sottratto all’orizzonte normativo del riduzionismo psichiatrico e all’anomia dell’insania, due volti di un’unica medaglia, la comprensione dell’essere umano come una cosa.