Michele Bracco

Philosophema, n. 3-5, Dicembre 2004

a Umberto Galimberti
Magister absconditus

L’avvento della psicoanalisi e della fenomenologia impongono alla psicopatologia di fine Ottocento una svolta epocale che la porta a superare quel riduzionismo scientifico tipico della cultura positivistica allora dominante. Sulla scorta delle riflessioni maturate in campo storico-filosofico ad opera di Wilhelm Dilthey, che aveva distinto le scienze della natura dalle scienze dello spirito, la psicopatologia, fino ad allora caratterizzata da un approccio prevalentemente organicistico per via del suo stretto legame con la psichiatria, dischiude nuove vedute che ne avrebbero salutato, da quel momento in poi, una nuova stagione feconda di innovazioni, di scoperte e, nella fattispecie, un modo nuovo di pensare il corpo e la corporeità.

Nel 1913 la pubblicazione della Psicopatologia generale di Karl Jaspers inaugura nel metodo e nei contenuti quella che sarà considerata fino ad oggi la prima psicopatologia scientifica, aprendo un campo di ricerca che tenderà sempre di più ad essere autonomo nel suo genere. Facendo sua una distinzione già formulata dalla scuola dello storicismo tedesco, Jaspers individua nella teoria e nella pratica psicopatologiche due modalità diverse di ricerca: la “spiegazione” (Erklären), attraverso cui il ricercatore si preoccupa di individuare i rapporti di causa ed effetto che determinano il presentarsi di un fenomeno psichico, ossia le leggi, i princìpi che dovrebbero valere in generale per tutti i casi analoghi consentendo di fare anche delle previsioni; e la “comprensione” (Verstehen), in virtù della quale l’osservatore entra, per così dire, nel cuore del fenomeno psichico per afferrarne il senso, per intenderne il significato più profondo che, in quanto legato all’interiorità dell’altro, riguarda un’esperienza personale unica ed irripetibile, irriducibile a qualsiasi misura ed a cui si può accedere, semmai, per mezzo dell’“entropatia” (Einfühlung), di quel particolare tipo di vissuto che consente ad ognuno di noi di comprendere quello che l’altro sta vivendo, di sentire ciò che egli prova come essere umano che ci assomiglia, ma senza potersi immedesimare in lui, in quanto la sua individualità resta qualcosa di assolutamente trascendente rispetto a noi, totalmente altra e dunque, per così dire, non penetrabile da alcuno sguardo esterno che miri a coglierla “in originale”.

Nasce così un modello di psicopatologia comprensiva rispetto a cui il corpo non è più considerato un puro e semplice meccanismo governato da leggi fisiche e da rapporti di tipo esclusivamente deterministico, ma diventa un fenomeno assai complesso che, oltre ad essere spiegato, va innanzitutto “compreso”, vale a dire indagato a partire da quelli che vengono chiamati i “vissuti” (Erlebnisse) della coscienza. Jaspers, così facendo, mette in guardia dal rischio di voler spiegare tutto senza però comprendere nulla, poiché la spiegazione di un fenomeno psichico o somatico nei soli termini delle sue implicazioni chimiche, fisiche e fisiologiche, finirebbe da sola per trasformare un sorriso, ad esempio, in una pura e semplice contrazione di muscoli, o le lacrime di dolore e quelle di gioia in una secrezione oculare dello stesso tipo.

Ma in che senso la comprensione del corpo deve tenere conto dei vissuti della coscienza? E cosa sono questi vissuti? In che misura il corpo è in relazione con essi? Non si potrebbe capire la svolta operata dalla psicopatologia contemporanea senza considerare il contributo della fenomenologia tedesca di Edmund  Husserl e Martin Heidegger, a cui si devono fondamentali intuizioni per quanto concerne la questione del corpo.

Husserl, dopo aver riconosciuto che la nostra coscienza è caratterizzata da un “flusso di vissuti” (Erlebnisstrom) che la orientano verso le cose per conferire loro un senso, distingue, a proposito del corpo, due differenti modalità d’essere: quella del Körper, vale a dire del corpo fisico in quanto corpo somatico di cui è possibile fornire una spiegazione anatomica e fisiologica, il corpo-cosa di cui si occupano le scienze sperimentali, quello che può essere aperto, misurato, il mio stesso corpo che esperisco quasi come un oggetto estraneo quando lo osservo nel riflesso di uno specchio o nell’immagine di una radiografia, quando lo tocco, lo annuso, come se fosse il corpo di un altro; e quella del Leib, del corpo-vivente, del corpo in quanto viene da me vissuto come corpo proprio e non come mero oggetto, nella sua interezza e non relativamente alle singole parti, ai singoli organi; quel corpo che io sono, piuttosto che semplicemente “ho”. Diversamente dal corpo-cosa, inoltre, il mio Leib è corpo vivente caratterizzato da una particolare “intenzionalità”, in virtù della quale mi rapporto alle cose nei termini di una esposizione che è apertura di mondo, trascendenza, e non mero riflesso fisiologico, contatto fisico tra recettori e corpi esterni. Mentre il Körper si può dire che finisca con l’ultimo strato della pelle, confine ultimo che chiude come in un sacco il corpo fisico, il Leib invece oltrepassa questi limiti e dischiude una realtà, un mondo che si caratterizza per essere un mondo di significati, un mondo dotato di senso e non considerato come la semplice somma indifferenziata delle cose che mi circondano.

Di conseguenza, non solo viene meno quella distinzione di origine cartesiana che voleva il corpo e l’anima come due sostanze metafisicamente distinte ed autonome l’una rispetto all’altra, ma si annuncia una concezione di corpo-vivente che esprime, per così dire, l’incarnarsi della coscienza, il farsi corpo della coscienza che, attraverso il conferimento di senso reso possibile dalla sua intenzionalità, introduce il corpo in una nuova dimensione di natura non più riduttivamente solo fisica: il corpo vivente, il Leib, non si colloca più nel mondo alla stregua degli altri oggetti come una cosa tra le altre; il corpo non sta semplicemente collocato, posto nel mondo come un pesce nell’acqua o una sedia in una stanza, ma piuttosto esso apre a sua volta un mondo, lo dischiude, lo rende possibile. Un mondo in rapporto al quale tutto il resto riceve il suo senso.

Ma per capire in cosa consista tale “apertura” occorre citare quello che fu il più grande tra gli allievi di Husserl: il filosofo Martin Heidegger. Questi sostiene che, diversamente da tutte le altre creature, solo l’uomo possiede la caratteristica della trascendenza, vale a dire la facoltà di essere orientato al di là dei propri confini, oltre i limiti entro cui si trova costantemente a vivere. Pur condividendo con altri esseri viventi una natura finita, l’uomo, che però Heidegger preferisce chiamare “Esserci” (Dasein), è allo stesso tempo il solo ente “formatore-di-mondo” (weltbildend), il solo cioè in grado di dischiudere una visuale, una prospettiva a partire dalla quale ogni cosa riceve il suo significato. L’Esserci, dunque, non è una pura e semplice cosa nel mondo, al cui livello scadrebbe se venisse considerato solo come Körper, ma piuttosto l’unico ente per il quale si apre, si costituisce qualcosa come un “mondo” a partire dal suo essere-perennemente-aperto nella modalità del progetto.

Questa riflessione modifica radicalmente anche la concezione del corpo. L’uomo che si rapporta alle cose o ai propri simili mediante il suo corpo non realizza soltanto un contatto fisico, ma si muove all’interno di una relazione più profonda, una relazione originaria che lo lega ad essi in modo indissolubile già da sempre. Non è che ci sia da una parte l’uomo come corpo fisico isolato da tutto il resto e poi lo stesso uomo che, in un secondo momento, incontra la realtà, entra con essa in relazione. L’uomo è preso sin dal primo momento in questa relazione con il tutto, relazione che non è puro e semplice contatto fisico, ma apertura di senso rispetto a cui soggetto e oggetto, individuo e realtà, io e mondo non sono enti che si contrappongono, che si fronteggiano come qualcosa di autonomo e di definito una volta per tutte, ma rimandano l’uno all’altro nei termini di un reciproco coinvolgimento o di quella che lo stesso Husserl chiamerebbe una “polarità”: il corpo è in un certo senso il “luogo” a suo modo inconcluso, indefinito, dove accade incessantemente il diventare mondo dell’io e il diventare io del mondo, come afferma anche il grande psicopatologo tedesco Jürg Zutt con una espressione linguistica tanto efficace quanto difficilmente traducibile: «Das Ich ist weltlich, die Welt ist ichaftig».

A raccogliere i frutti di queste riflessioni maturate nell’ambito della fenomenologia, che in realtà meriterebbero da parte nostra ulteriori approfondimenti che qui però non possono trovare spazio, è stato senz’altro uno dei più grandi psicopatologi del Novecento, Ludwig Binswanger, al quale si devono ulteriori intuizioni a proposito della questione del corpo. Lo psichiatra svizzero si rifà tanto alle indagini fenomenologiche husserliane, quanto a quelle ontologiche heideggeriane e considera il corpo nella sua relazione indissolubile con ciò che abbiamo chiamato il suo mondo. Pertanto, a detta di Binswanger, bisogna tener sempre presente non solo che l’uomo possiede un corpo dotato di determinate caratteristiche fisiologiche, caratterizzato da particolari capacità o deficit, ma che ogni uomo è primariamente il suo corpo, e che questo non costituisce un suo attributo né una dotazione di cui si possa semplicemente “disporre” come si fa con un qualsiasi oggetto, con un utensile cioè alla nostra portata. Ed è soprattutto nell’ambito della patologia che il modo di essere corpo, il modo di vivere la propria corporeità diventano estremamente importanti e richiedono un loro approccio specifico: «Bisogna domandarsi – avverte Binswanger – in primo luogo come un ammalato viva nel suo corpo o meglio come egli vitalmente sperimenti e “senta” il proprio corpo. Ma, per quanto riguarda questo “sentire”, non si deve pensare a percezioni riferite a questo o a quel senso, a questo o a quell’organo; soprattutto non si deve pensare a percezioni ottiche o tattili (cioè “esterne”) del proprio corpo. […] Bisogna sempre tener presente che non soltanto l’uomo “possiede” un corpo, che non basta sapere come è fatto questo corpo, ma che egli è sempre, in qualche maniera, corpo»[1]. In tal misura, afferma Binswanger, ogni psicoterapia autentica non può che mirare primariamente all’appacificamento dell’uomo con se stesso, ma anche a quello dell’uomo con il mondo, poiché la salute del corpo non è concepibile al di fuori di uno stato di armonia, di fiducia e di amicizia con ciò che ci circonda.

L’ultima considerazione ci introduce ad un’altra importante concezione del corpo, elaborata questa volta dallo psichiatra di origine russa Eugène Minkowski, anch’egli tra i più rappresentativi psicopatologi del secolo scorso. A lui si deve il merito di aver riconosciuto, innanzitutto, che il corpo vivente non solo è caratterizzato da una sua trascendenza, ma che gli appartiene anche un modo tutto suo di vivere lo spazio ed il tempo. Diversamente da quanto sostiene la fisica, Minkowski ritiene che per la comprensione dei vissuti psicologici valga esclusivamente la comprensione di quelli che egli chiama lo “spazio vissuto” e il “tempo vissuto”, in virtù dei quali il corpo si rapporta alle cose in una modalità differente da quella stabilita dagli strumenti convenzionali di misura di queste due dimensioni. A determinare la percezione dello spazio, infatti, non sarebbero tanto i recettori con cui il mio corpo scruta, indaga e misura l’ambiente circostante, quanto il mio particolarissimo modo di vivere, di desiderare, di patire ciò che è vicino o lontano in un senso che non è più banalmente geometrico, ma che riguarda la mia corporeità vivente, la quale possiede un modo suo proprio di vivere la distanza dalle cose a seconda della natura e del grado di coinvolgimento emotivo, affettivo, intellettuale che caratterizza ogni esperienza esistenziale: «La distanza di cui parliamo è naturalmente del tutto diversa dalla distanza geometrica. Essa ha un carattere puramente qualitativo. Non vuole e non può essere superata nel senso proprio del termine, poiché si sposta con noi, unisce molto più di quanto separi, non cresce né diminuisce con l’allontanamento degli oggetti, non ha limiti, in una parola non ha nulla di quantitativo. Essa non è più grande in un deserto nel quale ho solo l’orizzonte davanti che in una strada tumultuosa nella quale istintivamente scanso, ogni momento, i passanti che incontro; e se si dovesse parlare di differenza, direi piuttosto che essa si restringe nel primo caso, per il malessere creato dal fatto di vedermi solo in condizioni anormali, così lontane da quelle nelle quali normalmente si svolge la mia vita»[2]

Lo spazio vissuto è dunque uno spazio qualitativo entro il quale la vicinanza o la lontananza delle cose dipende dal nostro modo di essere, dalla nostra relazione con esse, relazione che può essere di attrazione o di repulsione, di accettazione o di rifiuto, di amore o di odio, uno spazio che per questo si può dire intonato, accordato a seconda di quelle che sono le nostre “tonalità emotive” (Stimmungen) [3]. Stessa cosa dicasi per il tempo, che non esprime una misurazione fisica oggettiva ed imparziale, ma viene considerato come il modo soggettivo in cui ognuno vive i momenti della propria vita. Il tempo vissuto non misura quanti giri compie una lancetta sul quadrante di un orologio ma, se proprio vogliamo dir così, a che velocità o lentezza queste si muovono e in quale direzione, girando in avanti o persino al contrario, a seconda di come e quanto siamo coinvolti in una data esperienza. Il tempo vissuto, come già Agostino aveva intuito, lungi dall’essere una forma esatta di misurazione, risente piuttosto del nostro stato d’animo, dei vissuti della nostra coscienza, la quale non conta semplicemente lo scorrere del tempo ma fondamentalmente lo vive, intessuta e attraversata da ricordi, da attese, da nostalgie, da ansie che costituiscono, per così dire, la “materia” di cui è fatta la nostra anima. Per Minkowski, inoltre, il corpo non va considerato come un oggetto isolabile dal contesto entro cui vive, ma deve essere inscritto in una vera e propria “cosmologia”. La stessa malattia mentale non è tanto, o solo, qualcosa come un danno, un cattivo funzionamento del cervello o di parte del sistema nervoso, ma costituisce l’incrinarsi di un “diapason”, come lo chiama lui, cioè il venir meno di una relazione armonica di natura cosmica, dal momento che tra l’io e l’universo intercorre quella che egli chiama una “solidarité structurale” in virtù della quale i moti dell’anima sono costantemente in relazione con i movimenti della natura [4] .

Ogni patologia mentale, pertanto, non può essere indagata se non a partire da quelle che sono le implicazioni di essa a livello della corporeità, sempre alla luce di quel profondo e insolvibile legame che tiene assieme il corpo e l’anima, la sfera somatica e quella psichica, non però nel senso di due dimensioni differenti ed autonome che un misterioso “ponte” psico-somatico metterebbe in contatto, quanto in quello di una relazione originaria al di fuori della quale essi non sarebbero quello che sono. Dalla mancata sintonia tra Körper e Leib e in seguito alle trasformazioni radicali del modo di vivere la propria temporalità, possono così scaturire tutta una serie di fenomeni patologici che in questa sede ci limitiamo solo ad accennare.

Si pensi, ad esempio, al fenomeno della depressione, dove il corpo risente di una coscienza che vive perennemente rivolta ad un passato angosciante che sembra non lasciare spazio ad alcuna progettualità, ad alcuno slancio ottimistico verso il futuro, un passato che ti fa sentire impantanato, impaludato e che destituisce il corpo della sua trascendenza, lasciando che diventi predominante la sua dimensione “cosale”, quella di un corpo-oggetto spesso silenzioso e sempre più appesantito dall’incombenza di un rimorso o di una colpa che non danno tregua. La depressione, allora, come ci riferisce Borgna, non sarebbe altro che «questo sguardo che non mi fa essere fra le cose che mi circondano e mi ri-chiamano con la straziata girandola delle allusioni e che si allontanano perdutamente; questa parola che non ha senso pronunciare perché il mondo è inaridito e soffocato da una tenebra illimitata di significati; questo cuore che si trasforma in pietra immobile e immutabile falciando ogni slancio e ogni vitalità del corpo; questo mondo che si smondanizza perché il corpo, sigillato nei suoi confini implacabili e ghiacciati, non ha più il mondo con cui parlare e a cui rivolgere un gesto e una parola» [5] .

All’interno di un corpo siffatto la persona si sente come murata viva, in trappola in un corpo che si fa sempre più estraneo, un corpo ostile che può arrivare, nel delirio ipocondriaco, ad assumere le fattezze di un qualsiasi materiale (pietra, legno, vetro, ecc.), vuoto o pieno, pesante o leggero, sgradevole e spesso in disfacimento fino alla decomposizione. Il malato ipocondriaco, infatti, come ci spiega brillantemente Lorenzo Calvi, si può dire che viva una relazione esclusiva, quasi autoerotica, con il proprio corpo vivente che mostra di conoscere molto a fondo, per via di un doloroso contrasto tra ciò che egli percepisce in sé come “opaco” e ciò che risulta ai suoi occhi “trasparente”; occhi che sono quelli della sua stessa mano, una mano che ormai non sfiora, non accarezza, ma piuttosto scruta, scava e letteralmente “sviscera”: «La vediamo sprofondare dentro di lui e rivoltare tutto il corpo, come il dito di un guanto. Questa penetrazione e questo scambio tra il dentro e il fuori sono in funzione della trasparenza fenomenica e danno la misura di quella che è la consistenza corporea dell’ipocondriaco. La sua intenzionalità si muove tra i due poli della trasparenza e della opacità e il suo corpo si costituisce sul piano trascendentale con un movimento che non è né brusco, né discontinuo, né reversibile come quello del patofobico, ma è lento, viscoso e a senso unico» [6] .

Ma la percezione vissuta del tempo e dello spazio può alterarsi anche in un altro senso, come nella mania, dove il soggetto è totalmente assorbito, preso in ostaggio da un presente degradato a puro “momentaneo” e quasi non avverte più la presenza del passato, poiché questo non fa a tempo ad essere vissuto che già viene da lui dimenticato. Mania che dilata oltremodo lo spazio abitato fino a farlo diventare uno spazio anonimo, riempito da tutto e da niente, da tutti e da nessuno; uno spazio quasi saturato dai gesti esasperati e frenetici del maniaco, dalla sua verbigerazione incessante, ridondante, aggravata da quelle particolari alterazioni del linguaggio e del pensiero che la psicopatologia chiama “insalata di parole” (Wortsalad) e “fuga delle idee” (Ideenflucht) [7] . In una condizione come questa, in cui l’individuo è travolto da una valanga di impressioni, di emozioni, di idee che letteralmente gli girano e gli frullano per la testa, egli risulta di fatto sempre più incapace di “incontrare” l’altro, mentre si imbatte violentemente in oggetti e persone che sono sempre alla portata della sua mano, simile ad una bocca ingorda e incontinente capace di afferrare freneticamente ogni cosa che, per questo suo essere troppo vicina, finisce invece per restare irrimediabilmente lontana: «L’altro, il prossimo, viene così poco appresentato come alter ego, che si riduce a semplice oggetto da usare o consumare. Non diciamo forse che il maniaco “consuma” il suo ambiente, lo “succhia a sangue”, lo “rovina” o lo “distrugge” con la sua autoritarietà intollerante di ogni obiezione, con l’invadenza, la violenza, la logorrea, con i suoi infiniti desideri, ordini, incarichi, scritti, con la sua irritabilità e suscettibilità, il suo contraddire sempre, la sua illimitata curiosità, il suo toccare e rendersi conto di tutto, il suo intromettersi in ogni cosa? Noi non siamo affatto per il maniaco l’alter ego, il partner, ma un estraneo qualsiasi, o meglio, una cosa estranea, un qualcosa che si osserva e si tocca, si consuma e si ferisce, si disturba e si distrugge» [8] .

Altre volte, invece, il corpo non riesce più a riconoscere i suoi stessi confini e il contatto con la realtà circostante costituisce un evento di drammatica alienazione. È quanto accade nella schizofrenia, dove il corpo vivente, il Leib, scade a livello degli oggetti che lo circondano e con essi arriva anche a confondersi o a identificarsi. Quello dello schizofrenico è perlopiù un corpo instabile, precario, le cui parti spesso vengono avvertite come se si staccassero o si diramassero per avvilupparsi a ciò che gli sta intorno: io e mondo, dentro e fuori, sono assolutamente indefinibili e il corpo si espande a dismisura col rischio di perdersi una volta per sempre. Come ci racconta Gaetano Benedetti, «la confusione tra sé e gli oggetti, e in particolare tra il proprio corpo e l’ambiente, è uno dei vissuti più gravi, veramente terribili, della schizofrenia. […] Questa continua confusione corporea è un modo di percepire nello specchio del corpo quella grave perdita di limiti, di strutture, di confini, che devasta l’intero Io schizofrenico, gli rende impossibile la distinzione tra percezioni ed emozioni, ricordi e sensazioni corporee presenti, simboli e cose reali, concetti e cenestesie, immagini eguali e simili, associazioni rimate e cognitive, ecc. » [9] . L’io dello schizofrenico è un io disorganizzato e si percepisce nel riflesso speculare di un mondo simmetricamente alterato e temuto, vissuto nel terrore. Il disfacimento dell’io si esprime soprattutto a livello psicosomatico nei termini di un linguaggio che dice la catastrofe, il crollo irreparabile di un corpo martirizzato a cui vengono spezzate le ossa, ustionata e strappata la pelle, strappato il viso, amputate ed esibite le parti intime, in balia di una potenza malvagia nelle cui grinfie l’individuo cade senza possibilità di scampo, quasi come una “marionetta”, per dirla con Binswanger, mossa da inquietanti e ignoti burattinai [10] .

L’alterazione della consapevolezza dei propri confini, che come sappiamo non sono soltanto confini fisici, è legata anche all’insorgere di altri gravi disturbi in cui il corpo si sente minacciato o finanche invaso, assediato da ciò che è altro da lui. Basti pensare, ad esempio, a tutto il campo dei deliri paranoici di tipo persecutorio, da cui emerge l’immagine di un corpo estremamente vulnerabile, esposto senza alcuna protezione agli sguardi indiscreti degli altri che tentano di oltrepassarlo, di frugarlo per spiare e rubare ciò che in esso veniva custodito nella più inaccessibile intimità: questi malati raccontano di essere osservati, da qualcuno a loro vicino, nei momenti più imprevedibili della giornata, al bagno, durante la notte, mentre si tolgono i vestiti, lamentandosi di essere spiati attraverso ogni genere di buchi, di fessure, ma anche da apparecchiature elettroniche esterne o addirittura interne, introdotte a loro insaputa nella testa per poter captare i loro pensieri o i loro desideri più inconfessabili che, una volta diventati di pubblico dominio, finiti come si suol dire sulla bocca di tutti, li espongono al ridicolo e al dileggio, sotto il peso insopportabile della vergogna o di un divorante senso di colpa, in una indifesa e indifendibile nudità in cui vengono a trovarsi per non poter più sentirsi al sicuro in quella “opacità” del corpo che costituisce da sempre il segreto inaccessibile che noi siamo.

Possiamo dire che mai, come in questo caso, l’esposizione al mondo ostile degli sguardi e degli orecchi altrui è letteralmente una “expeausition”, per dirla col filosofo francese Jean-Luc Nancy, che ha coniato questa parola in cui compare appunto la “pelle” (peau), ad indicare quanto l’esposizione sia un evento che coinvolge interamente l’individuo, lo apre carnalmente al mondo e ne coinvolge tutto l’essere. La pelle, infatti, come risulta anche dalle lungimiranti indagini del noto psicoanalista Didier Anzieu, è alla base di ogni sviluppo psichico, a partire dalla nascita, quando la separazione dalla propria madre viene vissuta dal bambino come la dolorosa lacerazione di una pelle comune, da cui la necessità di sviluppare un “Io-pelle” psichico che funzioni come un involucro narcisistico e gli consenta di rappresentare se stesso come un io che contiene i propri contenuti psichici, assicurando così al suo apparato psichico quell’equilibrio e quel benessere generale in cui consiste la salute: «Un Sé psichico sussiste fintantoché un involucro corporeo ne garantisce l’individualità. […] Essere se stessi vuol dire in primo luogo avere una pelle per sé e in secondo luogo servirsene come di uno spazio in cui collocare le proprie sensazioni» [11] .

E che la nostra esposizione alle cose e agli altri sia davvero una questione di pelle, lo si ricava anche dallo studio di altre forme di patologia mentale, come ad esempio la fobia ossessiva, in cui il rapporto col mondo passa per i confini precari di una pelle troppo porosa, perennemente in trasformazione e quindi poco compatta, non sufficientemente refrattaria, una pelle che per questo lascia passare pericolosamente il disordine e la sporcizia del mondo, mettendo a rischio la nostra sopravvivenza. È il caso dell’“anancastico”, di colui che si sente costantemente esposto alla minaccia di ciò che lo circonda ed è pertanto costretto a difendersi reiterando ossessivamente determinati movimenti, mettendo in atto veri e propri controincantesimi contro le forze invisibili del male da cui si sente invaso o assediato, adottando un comportamento caratteristico di tutti gli ossessivi che consiste, ad esempio, nel toccare le cose un numero preciso di volte o nel far precedere determinate azioni da un rituale scaramantico che serve a scacciare gli influssi negativi, tutte strategie al limite del soprannaturale che, come dice Erwin Straus, fanno di questi pazienti dei «maghi di una specie del tutto particolare» [12] . Ostinatamente convinto che le cose siano perennemente in movimento, in una continua fluttuazione che ne determina anche l’irreparabile disfacimento, questo particolare tipo di ossessivo è perennemente costretto, appunto quasi come da una necessità (Ananke) più forte di lui, a controllare e tenere a bada il disordine del mondo e la dissoluzione di tutte le cose, compresa quella del suo stesso corpo. Da qui la fobia per lo sporco e soprattutto per la polvere, da sempre segni inequivocabili di disfacimento e di morte, e di conseguenza la preoccupazione ossessiva per la pulizia della pelle, una porta costantemente aperta e dunque esposta al pericolo del contagio, della contaminazione: «Quel che dice la polvere è che il disordine promuove anche un movimento interno delle cose, un affluire in superficie delle particelle più nascoste, uno sgretolamento continuo, silenzioso e implacabile. È la stessa cosa che succede alla pelle. La pelle si desquama continuamente e acqua e sapone la detergono. Sennonché, quando è ben bene detersa, rischia di entrare in contatto ancor più intimamente con tutto quello che c’è intorno e che a sua volta si desquama, si sgretola, si sfarina. Non c’è che detergersi di nuovo, in una successione che si ripete e che si stringe a ogni giro» [13] .

Ma l’esposizione all’esterno costituisce una minaccia per il corpo anche nel caso di quei deliri che incentrano il proprio contenuto di senso sul tema della pelle e del contatto con un “mondo animale” che questa volta non ha più le dimensioni microscopiche dei batteri, ma riguarda ad esempio gli insetti o qualsiasi altra specie vivente di dimensioni anche maggiori: mi riferisco al delirio zoopatico, al delirio dermatozoico e a quello zooptico, anch’essi derivanti da una particolare modificazione dello spazio vissuto e dal modo alterato di vivere la distanza dalle cose. Il corpo-vivente, infatti, diversamente dal corpo-oggetto, non misura la distanza in centimetri o millimetri, ma essenzialmente vive su di sé, o dentro di sé, la presenza inquietante dell’animale, in quanto la capacità del corpo di vivere la distanza dalle cose si modifica costantemente, trattandosi di una spazialità non semplicemente posizionale ma essenzialmente “situazionale” [14] . Alla luce di questo tipo particolare di spazialità è possibile comprendere la tipologia orifiziale caratteristica di questo genere di deliri, che condiziona in un modo altrettanto tipico il vivere e, direi soprattutto, il patire quel passaggio, quello scambio incontrollabile tra interno ed esterno, tra cavità interne al corpo e superfici esterne, scambio che minaccia l’integrità di un sé che, per questo motivo, resta esposto alla possibilità della sua stessa morte. Su questo argomento ha scritto pagine indimenticabili Bruno Callieri, anch’egli, assieme a Borgna e a Calvi, fra i più grandi psicopatologi viventi di indirizzo fenomenologico: «L’ambito orifiziale ci offre, come spazio vissuto, il passaggio ambivalente significativo tra cavità interne del corpo e superficie esterna di esso. È appunto sul piano orifiziale che si realizza la primordiale esperienza umana del vero e proprio “contatto con l’animale” che entra nel corpo o proviene dal corpo, infrangendo in ogni caso barriere considerate insuperabili: così, ad es., le raffigurazioni di parassiti emessi dall’ano, quelle di antichissime iconografie rappresentanti animali che fuoriescono dal cavo orale, sono tutte espressioni di esperienze culturalmente innestate sulla sensazione dell’impenetrabilità (inviolabilità) del corpo interno, del dentro» [15] .

E che dire anche dell’anoressia e della bulimia? Queste due modalità esistenziali, infatti, sono considerate da sempre due casi esemplari di patologia della corporeità, in cui si è alle prese con un corpo che solo riduttivamente può essere considerato nella sua sola dimensione somatica, dal momento che anoressia e bulimia riguardano non tanto, e non solo, la fisiologia e la biologia, quanto il modo soggettivo di sentirsi corpo, di viversi come corpo, di essere e non di avere un corpo – ciò che si vuole appunto indicare col termine “corporeità”. Queste due tipologie di vissuto testimoniano la centralità del corpo-vivente quale luogo di transito tra sé e il mondo, tra l’io e gli altri, zona di confine molto più impalpabile e vulnerabile della stessa pelle, poiché si modifica costantemente e non raggiunge mai una conformazione, un assetto che siano definitivi. Nell’anoressia, allora, il restringersi dei confini corporei tende ad una sorta di annullamento totale, al fine di liberarsi della pesantezza di un corpo vissuto come ingombrante, come un impedimento verso l’acquisizione di una leggerezza quasi solo spirituale, laddove, nella bulimia, l’espansione di un io ipertrofico mira invece ad inondare il mondo e a riempirlo, con la conseguenza che, a causa di questa sua espansione illimitata, il bulimico, il quale fagocita un mondo che diventa carne della sua carne, finisce per soccombere sotto il peso di una carne che sfugge ormai ad ogni possibilità di controllo [16] . Gli esempi potrebbero continuare, ma a questo punto è anche opportuno raccogliere delle possibili conclusioni.

Quello che finora è emerso è certamente il fatto che il corpo è perennemente in fieri, qualcosa di cui non è possibile tracciare i confini una volta per tutte e che, per dirla con Nietzsche, fa dell’uomo l’unico animale “non ancora stabilizzato”. Ma il corpo, a causa della sua particolare “visibilità”, resta anche un oggetto privilegiato di intervento da parte dei diversi poteri che ne controllano e governano la serie dei movimenti e delle trasformazioni mediante il ricorso a differenti codici interpretativi, con i quali si procede ad attribuire un senso alle sue azioni e alla espressione dei suoi stati emozionali. Il corpo è così inserito in un vero e proprio “spazio ideologico” [17] , nella condizione di subire anche forme diverse di assoggettamento: esso viene escluso, marchiato, torturato, operato, ma anche addestrato, premiato, curato, riprodotto – non dobbiamo infatti cadere nell’illusione di credere che l’opera di controllo dei corpi avvenga sempre ed esclusivamente nei termini della coercizione: sappiamo tutti quanto potere è possibile esercitare sugli individui utilizzando la sola forza della ricompensa, del dono, del perdono. Tuttavia, anche nei casi in cui sembra che l’intervento del potere sia rivolto direttamente alle coscienze, all’anima, si tratta sempre di una manovra eseguita ancora una volta ai danni del corpo. Per questo motivo, come afferma Foucault, non si dovrebbe concludere affrettatamente «che l’anima è un’illusione, o un effetto ideologico. Ma che esiste, che ha una realtà, che viene prodotta in permanenza, intorno, alla superficie, all’interno del corpo, mediante il funzionamento di un potere che si esercita su coloro che vengono puniti – in modo più generale su quelli che vengono sorvegliati, addestrati, corretti, sui pazzi, i bambini, gli scolari, i colonizzati, su quelli che vengono legati ad un apparato di produzione e controllati lungo tutta la loro esistenza. Realtà storica di quest’anima, che, a differenza dell’anima rappresentata dalla teologia cristiana, non nasce fallibile e punibile, ma nasce piuttosto dalle procedure di punizione, di sorveglianza, di castigo, di costrizione. Quest’anima reale e incorporea, non è minimamente sostanza; è l’elemento dove si articolano gli effetti di un certo tipo di potere e il riferimento di un sapere, l’ingranaggio per mezzo del quale le relazioni di potere danno luogo a un sapere possibile, e il sapere rinnova e rinforza gli effetti del potere» [18] .

La storia dei manicomi, così come quella delle cliniche, delle carceri, delle fabbriche, delle scuole, delle chiese, ecc. porta alla luce il fatto fondamentale che ogni organizzazione disciplinare finisce sempre per produrre un proprio “modello” di corpo, affinché le forze e le potenzialità dei corpi non vengano sprecate, non debordino in pericolose ed incontrollabili eccedenze ma siano piuttosto impiegate concretamente in opere funzionali al “bene” della società, al fine anche di sublimare, per così dire, quelle caratteristiche negative (di perversione, di stravaganza, di devianza) che i corpi possono assumere. Questo spiega il sempre maggiore interessamento dello Stato, della politica, della sanità, della religione ai problemi della salute e dell’igiene fisica e “mentale”, all’educazione e persino al tempo libero di ogni cittadino.

La follia, allora, che è sempre follia di un corpo, può esplodere come la contraddizione più assoluta, l’opposizione più radicale ed insolente nei riguardi di tutti quei processi di educazione e di riabilitazione imposti nel tentativo di controllare, attraverso la cura medica e morale dei corpi, quei “flussi di intensità” – per dirla con Deleuze – da cui siamo attraversati, quelle linee di forza da cui siamo caratterizzati al di qua di quell’identità precaria conferitaci dal nome proprio e dal ruolo sociale. La follia, in questo caso, si oppone come alterità irriducibile rispetto a qualsiasi imposizione totalitaria di una Ragione che tenti di neutralizzare il corpo nel suo essere perennemente in divenire, al fine di assoggettarlo a schemi antropologici, psicologici o psicopatologici che distinguono rigidamente ciò che è naturale da ciò che è innaturale, ciò che è sano da ciò che è malato, ricorrendo a definizioni, a classificazioni, a nosologie in virtù delle quali colui che dà “nome” alle cose, assume, per questo, anche potere e diritto su di esse.

© Philosophema, n. 3-5, Dicembre 2004


[1]L. Binswanger, Sulla psicoterapia, in Per un’antropologia fenomenologica, tr. it., Feltrinelli, Milano 1989, pp. 151-153.

[2]E. Minkowski, Il tempo vissuto, tr. it., Einaudi, Torino 2004, p. 373.

[3]Cf. M. Bracco, Sulla distanza, Stilo Editrice, Bari 2003².

[4]E. Minkowski, Vers une cosmologie, Payot, Paris 1999, pp. 168-172.

[5]E. Borgna, Malinconia, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 75-76.

[6]L. Calvi, La consistance corporelle chez l’hypocondriaque, in G. Lantéri-Laura, a cura di, Regard, accueil et présence, Privat, Toulouse 1980, p. 61 [trad. nostra].

[7]L. Binswanger, Sulla fuga delle idee, tr. it., Einaudi, Torino 2003.

[8]L. Binswanger, Melanconia e mania, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 84.

[9]G. Benedetti, Alienazione e personazione nella psicoterapia della malattia mentale, Einaudi, Torino1980, p. 49.

[10]L. Binswanger, Il caso Suzanne Urban, tr. it., Marsilio, Venezia 1994, p. 114.

[11]D. Anzieu, L’io-pelle, tr. it., Borla, Roma 1994, pp. 68-69.

[12]Cf. E. Straus, On obsession, Nervous and Mental Disease Monographs, n°73, New York 1948, p. 38.

[13]L. Calvi, Il fremito della carne e l’anancastico, in A. Ballerini-B. Callieri, a cura di, Breviario di psicopatologia, Feltrinelli, Milano 1996, p. 52.

[14]U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 1994, p. 74.

[15]B. Callieri, L’animale nel vissuto corporeo, in Quando vince l’ombra, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2001, p. 169.

[16]Cf. A. Garofalo, L’ec-sporsi iconografico del corpo, in A. Dentone, a cura di, Corpo e psiche: l’invecchiamento, Bastogi, Foggia 1998, pp. 85-101.

[17]Cf. M. Bracco, Corpo grottesco e spazio ideologico, «Comprendre. Archive International pour l’Antropologie et la Psychopathologie Phénoménologiques», 10, 2000, pp. 29-47.

[18]M. Foucault, Sorvegliare e punire, tr. it., Einaudi, Torino 1976, p. 33.