Giampiero Arciero

La psicopatologia

Vorrei affrontare l’argomento proposto riconsiderando anzitutto il rapporto tra epistemologia e psicopatologia. Ci troviamo subito di fronte ad una messa in discussione della visione della psicopatologia e della definizione che di essa ha dato Vittorio Guidano, che aveva suggerito una differenziazione fra psicopatologia esplicativa e psicopatologia descrittiva. Tale distinzione appare inopportuna sotto il profilo epistemologico, mostrando dei limiti che non sono puramente terminologici ma che sopratutto generano confusione metodologica.

La diversità che Vittorio tracciò fra una psicopatologia descrittiva che caratterizzerebbe l’impianto del DSM IV, per cui le definizioni coincidono con gli aspetti clinici dei disturbi, ed una psicopatologia esplicativa che, invece, qualificherebbe l’approccio post-razionalista, centrata sulla ricostruzione delle esperienze trasformazionali che hanno generato il disturbo, non è fondata. Infatti, la descrizione e la spiegazione sono sempre due momenti inseparabili del processo di acquisizione di conoscenza scientifica.

La comunità scientifica conviene sulla legittimità scientifica di una conoscenza quando questa viene acquisita attraverso un metodo che si declina in  quattro movimenti:

  1. distinzione del fenomeno: descrizione e modalita’ di messa a fuoco del fenomeno osservato (ad esempio, lo stato psicotico e’ distinto attraverso il riconoscimento del delirio o/e delle allucinazioni);
  2. generazione del meccanismo esplicativo in grado di produrre il fenomeno distinto (ad esempio, amplificazione di temi emozionali, oppure, alterazione del metabolismo della dopamina);
  3. deduzione di altri fenomeni non esplicitamente considerati nei due punti precedenti (ad esempio,  trasformazione delle relazioni  interpersonali);
  4. esperienza attuale di altri fenomeni (alterazioni delle emozioni, sociali, linguistiche, del senso di sé, etc.).

La descrizione del fenomeno osservato è sempre il presupposto del meccanismo esplicativo!

La distinzione fra psicopatologia esplicativa e psicopatologia descrittiva sembra dunque epistemologicamente infondata.

Sicuramente l’atteggiamento classificatorio che anima l’architettura dei vari DSM (e di quelli che verranno) non facilita la comprensione di un’attitudine scientifica che, pure, dovrebbe essere il fondamento di quelle catalogazioni. Anzi, fattualmente, si assiste ad uno iato tra il clinico che, mentre classifica i sintomi secondo quel sistema di riferimento, invoca la genetica o la biochimica a sostegno della scientificita’ della diagnosi, ed i ricercatori che, mentre costruiscono meccanismi genetici o biochimici o neurali con talento sicuramente scientifico, hanno conoscenze frammentarie e spesso confuse del disturbo reale del fenomeno osservato che dovrebbero spiegare. Cosiì ormai da qualche anno e con inquietante chiarezza nelle Università, si va affermando in psicopatologia una tendenza classificatoria che ci riporta indietro di un paio di secoli.

Prima che lo studio delle scienze della natura fosse rivoluzionato dall’acquisizione del metodo empirico e di conseguenza dalla delimitazione dei campi dell’esperienza tanto da renderli controllabili, la Storia Naturale era concepita come un elenco e una descrizione degli elementi appartenenti al regno della natura. Linneo, che fu professore di medicina teoretica e pratica, raccomandava di ordinare i sintomi e le malattie sulla base del modello della botanica; cosiì scrisse a de Sauvages: “I sintomi sono per le malattie ciò che  le foglie ed i sostegni sono per le piante.” Non è inutile ricordare che la trasformazione della Storia Naturale in scienza della natura (il concetto di “biologia” appare per la prima volta fra il 1800 ed il 1802) si accompagna ad un cambiamento di attitudine per cui lo studioso di medicina smette di interessarsi alla patologia come un botanico e pone al centro della sua riflessione la genesi e la storicità delle malattie! (Lepenies,1991)

Il problema non riguarda, pertanto, la differenza fra descrittivo ed esplicativo, che abbiamo visto corrispondere a due fasi di uno stesso processo, quanto piuttosto i limiti della metodologia scientifica così come l’abbiamo delineata rispetto alla comprensione dell’esperienza soggettiva. Detto in altri termini, l’aporia sembra emergere laddove cerchiamo di comprendere l’esperienza personale (1* persona) attraverso una metodologia che ha come presupposto, e come limite, il fatto di essere impersonale (3* persona). E’ questo il problema posto da Thomas Nagel in un articolo del ’74 (Nagel, 1986), dal titolo suggestivo: “Che effetto fa essere un pipistrello?”. Nagel inizia la sua trattazione affermando che il fenomeno della coscienza fa si’ che nessuna metafora riduzionista possa essere applicata alla comprensione del rapporto mente-cervello; questo proprio perche’ c’e’ la coscienza. Il fatto che un certo organismo abbia un’esperienza conscia significa che fa un certo effetto essere proprio quell’organismo; è questa l’esperienza soggettiva, che e’ necessariamente legata al punto di vista di quell’organismo. Ebbene, qualsiasi tipo di spiegazione impersonale (biochimica, neurologica, comportamentale, motivazionale, etc.) inevitabilmente esclude dalle proprie analisi la fenomenologia soggettiva. Ogni teoria oggettivista volta alla spiegazione dell’esperienza di un organismo cosciente lascia un residuo: precisamente la comprensione dell’esperienza di essere quell’organismo. E’ il caso del pipistrello; possiamo analizzare il come un pipistrello costruisce la sua percezione del mondo; possiamo dire che utilizza una sorta di ecogoniometro che raccoglie i riflessi delle strida che lancia e che rimbalzano sugli oggetti nel suo campo d’azione, etc.; ma, sebbene possiamo spiegare, in generale, alcuni modi dell’esperienza percettiva del pipistrello, il carattere dell’effetto che fa percepire il mondo in quel modo ci resterà per sempre inaccessibile.

Le cose cambiano nel caso in cui siamo sufficientemente somiglianti ad un altro organismo, come per il  consimile, tanto da potergli attribuire una certa qualità dell’esperienza in quanto siamo in grado di cogliere il suo punto di vista e quindi di aderire ad esso. Possiamo in questo caso guardare all’esperienza sia adottando il punto di vista dell’altro (1* persona) che osservandolo da una prospettiva oggettivante (3* persona). Pero’, come commenta Nagel, “e’ difficile capire cosa si potrebbe intendere per carattere oggettivo dell’esperienza, indipendentemente dal punto di vista particolare da cui il soggetto la percepisce. Dopotutto, cosa resterebbe dell’effetto che fa essere un pipistrello se si rimuove il punto di vista del pipistrello?” (Nagel, 1986). Ma è esattamente come il metodo scientifico procede! Quanto più riduciamo, nei processi di osservazione, la dipendenza del fenomeno osservato dal nostro punto di vista individuale e di specie, tanto piu’ l’osservazione acquista  oggettività. E’ il famoso punto di vista secondo l’occhio di Dio. Per esempio, se studiamo il suono e scopriamo che e’ un fenomeno ondulatorio, lasciamo il punto di vista individuale, uditivo vero e proprio, e ne assumiamo un altro che annulla l’impressione che il suono fa sui nostri sensi. Sembra pertanto che ci avviciniamo all’oggettivita’ quanto piu’ ci allontaniamo da una condivisione di realta’ specificamente umana!  Se ciò è possibile –continua Nagel–  per la comprensione dei fenomeni del mondo esterno, quando studiamo l’esperienza umana “non possiamo ignorare il punto di vista soggettivo perche’ esso e’ l’essenza del mondo interno, e non semplicemente un punto di vista su di esso”. Le Scienze Cognitive invece hanno trascurato in maniera sistematica l’esperienza soggettiva, sia nell’ambito dell’approccio simbolico–rappresentazionale che in quello connessionista. Queste scienze che hanno costruito splendide teorie della “mentation”, tralasciando la soggettività, hanno  creato menti che non sono di nessuno!

Le riflessioni di Nagel ci inducono a considerare due prospettive ed un divario.

  1. L’esperienza in prima persona. E’ l’esperienza irriducibile di essere sè che è rilevante per il soggetto che vive, il quale  puo’ essere in  grado o meno di renderne conto. E’ evidente che l’effetto che fa essere quel sè è accessibile solo da quel certo punto di vista; l’effetto che fa il mio sentirmi vivo, il mio guardare il mondo, il mio gioire o il mio soffrire, l’esser sempre mio dell’esperienza non puo’ esser derivato da un approccio in terza persona.
  2. L’esperienza in terza persona. E’ la descrizione-spiegazione dell’esperienza in termini naturali, per cui l’esperienza distinta è generata come prodotto del funzionamento di un meccanismo. E’ evidente che i contenuti di questa spiegazione non sono connessi ad una manifestazione diretta nella sfera mentale della persona. Così, per esempio, posso render conto del disturbo ossessivo invocando una alterazione del sistema serotoninergico oppure una iperattività del lobo frontale; questi dati pero’ non appaiono nella sfera mentale della persona; non sono parte della sua esperienza. L’ossessivo non sente l’iperfrontalismo o la modificazione del funzionamento del sistema della serotonina quando ha l’impellenza di compiere un rituale.

Il divario fra le due angolazioni è evidente, e questo scarto è una radura dove emergono quesiti, dubbi e problemi; uno fra tutti: è possibile armonizzare queste due prospettive? E’ possibile, cioè, assicurare uno statuto scientifico allo studio dell’esperienza in prima persona tanto da poter costruire una sorta di fenomenologia oggettiva in grado di dialogare con le neuroscienze, con le scienze cognitive e con le scienze mediche, nell’obiettivo comune di cogliere le connessioni fra invarianti esperienziali (1* persona) ed operazionali (3* persona)? E poi, è possibile aprire la ricerca allo studio delle proprietà, delle costanti e delle alterazioni del corpo e del SNC  attraverso la guida fornita dai dati fenomenologici? Io direi sì e no.

Perchè sì?

 Torniamo all’atteggiamento dello psichiatra o/e dello psicoterapeuta che osserva l’esperienza dell’altro, ne ascolta i racconti, ne valuta la condizione. La matrice in cui la relazione col paziente prende forma ha come struttura fondamentale Io – Tu – ciò; nella comunicazione linguistica essa si traduce nei termini: Io paziente, racconto a Te psicoterapeuta di questa cosa  o di  quell’altra (Patocka, 1998). Dal punto di vista dello psicoterapeuta, che è in una posizione di seconda persona, la postura che può assumere rispetto al paziente è duplice, ed in relazione al differente atteggiamento si delineano due modalità distinte di comprensione dei fenomeni psicopatologici.

L’una è quella di osservare l’esperienza dall’esterno mantenendo una posizione neutra, inferendo una certa coerenza globale secondo un sistema di riferimento oggettivo; lo psicoterapeuta che si muove in questa traiettoria, pur non entrando nell’orizzonte di significati del paziente e sebbene valuti l’esperienza dell’altro dall’esterno, spesso sotto forma di sintomo, non ne cancella l’unicità. Comunque, quanto più si considera l’esperienza osservata come il risultato del funzionamento di un meccanismo (per esempio, biochimico, neurologico, etc.), tanto più la si spoglia di intenzionalità, eliminando contemporaneamente la soggettività. (Spesso questo punto di vista è alla base dell’atteggiamento classificatorio e sostiene la psicopatologia oggettivista ).

L’altra è quella della ricerca della comprensione dell’esperienza del paziente e della sua coerenza; un incontro del genere puo’ essere possibile solo a condizione di immergersi nell’esperienza che l’altro ha di sè (prima persona), mantenendo una distanza critica e valutativa, ma con l’intenzione ferma di trovare l’essere dell’altro nel dominio della sua propria esperienza considerata irriducibile (Arciero, Mahoney, 1989). Nella pratica questa visione è tradotta dal terapeuta nella produzione di una continua oscillazione tra la condivisione e la distanza analitica dall’esperienza del paziente. (Spesso questo punto di vista è alla base dell’atteggiamento psicoterapico e sostiene la psicopatologia che chiameremo costruttivista).

Soprattutto in questo secondo caso, lo psicoterapeuta appare come un mediatore che prende posizione rispetto all’esperienza dell’altro, che immaginativamente ricostruisce, condivide ed esamina. Perchè questo processo non dipenda dall’empatia o dall’immaginazione, occorre delineare un metodo che sottenda la posizione di mediazione e che ci permetta di trattare scientificamente l’esperienza soggettiva tanto da poterla  validare.

Due situazioni potranno aiutarci a cogliere la posizione della seconda persona che sembra occupare lo slargo fra le due prospettive, come lo spazio bianco fra due parole.

a) Scientificita’ ed esperienza soggettiva: la prima persona e la mediazione della seconda persona.

Un maestro di tennis, di 40 anni, richiede visita specialistica perche’ dal momento in cui la moglie gli comunica – 6 anni fa – di essere incinta, soffre di attacchi di panico. Senza entrare nei dettagli della storia di questo paziente, il primo passo di una terapia costruttivista è riorientare l’attenzione del paziente nel corso di un certa situazione problematica per generare una rinnovata presa di coscienza della propria esperienza critica. In effetti il rinnovo della prospettiva e’ l’obiettivo che sottende l’intero processo terapeutico.

Perche’ si realizzi questo ridirezionamento dell’attenzione e quindi del senso (che comunque non sempre è possibile) è necessario che il paziente familiarizzi con un particolare metodo di esplorazione dell’esperienza che inevitabilmente passa attraverso la mediazione da parte del terapista (analisi); nel caso specifico, la  messa a fuoco da parte del paziente – indotta dal terapista con varie tecniche di auto-osservazione – dell’emergere “automatico” della paura, amplificata da scenari catastrofici ogniqualvolta entra in spazi percepiti come angusti. A sua volta, l’abilità del terapista consiste nell’immergersi nell’esperienza del paziente tanto da guardare il mondo dal suo orizzonte di significati, con la particolare attitudine di ridisegnare le procedure d’indagine in relazione ai modi ed ai tempi  dell’esperienza condivisa (condivisione). L’esperienza soggettiva come oggetto di investigazione scientifica, cosi come l’esperienza della cura, sembrano prender forma all’interno del punto di vista della persona che la vive attraverso la mediazione  partecipativa dell’altro.

Il metodo è l’introspezione, la procedura è la focalizzazione, la validazione è la negoziazione reciproca di senso rispetto all’esperienze in esame; è la ricerca di un con-senso fra il racconto dell’esperienza da parte del paziente al terapista e la riconfigurazione di quelle esperienze da parte del terapista al paziente, che ricomprenda gli eventi problematici.

Alla focalizzazione guidata dell’esperienza personale segue, infatti, la riflessione e la ricerca di senso dell’esperienza distinta, secondo delle invarianze che man mano sono confermate dai dati esperenziali osservati.

In relazione al nostro paziente, la distinzione della paura rispetto alla situazione in esame diventa un caso specifico di una sensibilità più generale alle situazioni costrittive, vissute in termini di limitazione del controllo. Questa riflessione guidata permette al paziente un primo globale riordinamento della sua esperienza secondo degli elementi invarianti, che corrispondono anche a dei temi di base dell’Identità Personale. Questi temi ideoaffettivi, nella nostra tradizione, sono stati distinti come Significati Personali (Guidano, 1988, 1992). E’ interessante sottolineare come questo modo di procedere, che caratterizza la nostra pratica terapeutica, sia simile alla famosa Riduzione, chiave di volta metodologica della Fenomenologia Husserliana. Attraverso un atto “di forza” sul proprio assorbimento nel mondo l’uomo sospende l’evidenza naturale degli oggetti e si sofferma sul senso attraverso cui essi sono stati costituiti, su quel senso che sostiene la loro origine. Un tipo di conoscenza, dunque, volta a chiarire la costruzione del senso piuttosto che spiegare i fenomeni attraverso l’applicazione e la conferma di leggi generali.

b) Scientificità ed oggettività dell’esperienza: la terza persona e la mediazione della seconda persona.

Forse nessuna scienza si presta con tanta chiarezza a cogliere immediatamente questa connessione come l’Anatomia Patologica che, del resto, sin da Bichat è la disciplina di riferimento di tutte le branche mediche. Nel corso dell’autopsia, la prima valutazione di un certo organo è fatta in relazione a parametri “sensibili”. Il fegato, per esempio, è esaminato per il volume, per la superficie, per lo spessore dei margini, per la consistenza del parenchima e per il colore. Ebbene, come ogni studente che frequenta quotidianamente il tavolo anatomico sa, nel corso della formazione in quella materia il trainer induce una “rieducazione” percettiva nell’allievo. Ancora ricordo la meraviglia che mi colpi’ quando il grande prof. Ascenzi, in una delle prime autopsie a cui assistetti ,mostrando una sezione di fegato steatosico disse che era grigio-pallido. Lui vedeva grigio-pallido laddove io vedevo rosso mattone! Dopo un anno di autopsie e di studio dei processsi anatomopatologici anche per me il fegato steatosico aveva delle gradazioni che andavano dal giallo al grigio. Cosa era successo? Come e perche’ si era modificata la mia percezione dei colori?

Per chiarire questo punto vorrei riprendere brevemente l’itinerario tracciato da Paul Feyerabend nei capitoli centrali  di un testo, “Contro il metodo” (1979), che ho molto amato nel corso di quei miei anni formativi.

Feyerabend mostra, con grande efficacia ed acume argomentativi, come Galileo, mutando un modo di interpretare il moto della terra, sovverta un modo di percepire la realta’. La dimostrazione tocca 3 punti:

1) La discussione dell’argomento della torre, usato dagli aristotelici per dimostrare l’immobilità della terra, secondo cui, se la terra fosse in movimento, un sasso lanciato dalla sommità di una torre non dovrebbe cadere perpendicolarmente, “ma dovrebbe il sasso percuotere in terra lontano dalla radice della torre”.

Galileo non discute l’esattezza dell’osservazione ma distingue, a più riprese, l’apparenza da ciò che viene asserito con essa, disconnettendo così l’osservazione dal pregiudizio che la sostiene. Smaschera nel cuore dell’osservazione la pre-comprensione che la orienta. “Meglio è dunque che, deposta l’apparenza, nella quale tutti convenghiamo, facciamo forza col’ discorso, o per confermar la realtà di quella, o per iscoprir la sua fallacia” (pag. 61).

2) Il capovolgimento interpretativo da parte di Galileo che dimostra il moto della terra coniugando l’apparenza con nuove asserzioni. In tal modo l’argomento della torre è usato a sostegno della teoria. Galileo impiega prove molto convincenti per dimostrare il “principio di relatività”, secondo il quale noi percepiamo solo movimenti relativi, mentre siamo completamente insensibili al moto comune. E’ l’esempio della messa a fuoco da parte dell’osservatore dell’antenna di una nave che rimane costante anche quando la nave si muove velocemente, perchè il moto che la nave conferisce all’antenna è conferito anche all’osservatore ed al suo occhio. Allo stesso modo, il moto della terra e’ comune al sasso alla torre ed all’osservatore. La caduta perpendicolare della pietra conferma il fatto che terra, osservatore e pietra hanno un moto comune. Galileo dice: “…l’istessa esperienza che pareva nel primo aspetto mostrare una cosa, meglio considerata ci assicura del contrario” (pag.71).

3) Il mutamento delle interpretazioni che sottendono le apparenze modifica le percezioni e le sensazioni stesse, generando esperienze interamente nuove. Feyerabend porta a sostegno di questa tesi l’uso che Galileo fa del telescopio e del nuovo linguaggio osservazionale che inventa, e l’impatto che la pratica dell’osservazione telescopica ebbe sia su ciò che si vedeva al telescopio che su ciò che si vedeva ad occhio nudo (pag.110). A tal proposito Feyerabend ci racconta dell’incontro che si ebbe il 24 e 25 maggio del 1610 a Bologna in casa di Giovanni Antonio Magini, oppositore di Galileo, in presenza di 24 illustri professori, per provare lo strumento che Galileo aveva portato. Mentre tutti ne ammisero l’efficacia per gli oggetti terrestri, nessuno riusci’ ad apprezzarne l’efficienza per l’osservazione dei corpi celesti. Keplero, a cui fu comunicato il fallimento, presso’ Galileo ad indicargli testimoni delle sue osservazioni telescopiche, ma nella stessa lettera ebbe a dirgli: “…se considero ciò che talvolta capita a me, non mi pare affatto impossibile che una singola persona possa vedere cio’ che mille non riescono a vedere…” (pag.103). Galileo nella sua lettera di risposta indicò come testimoni se’ stesso, il Granduca di Toscana, Giuliano dei Medici ed altri a Pisa, a Venezia, a Firenze, a Bologna, a Padova, “moltissimi hanno veduto; tutti tacciono ed esitano: la maggior parte infatti non riconoscono come pianeti nè Giove, nè Marte, e al massimo la luna…” (pag.104). Sicuramente, gli oppositori di Galileo non potevano vedere quello che lui vedeva. Di certo è molto semplice distinguere le forme che ci sono familiari e separarle da uno sfondo, mentre e’ molto difficile discernerle se non ne abbiamo conoscenza alcuna. E’ questa un’esperienza che si manifesta in tutta la sua evidenza la prima volta che osserviamo un vetrino al microscopio. Come dice Feyerabend : “…i sensi in condizioni anormali sono soggetti a dare una risposta anormale”. Pertanto, anche nell’impresa scientifica che spesso ha l’arroganza di parlare in nome della realta’, i processi d’insegnamento plasmano la connessione fra il fenomeno e le parole, fra l’apparenza e l’asserzione. Sebbene l’evidenza fenomenica sembra imporre un senso intrinseco, essa è ciò che le asserzioni fuse con essa dicono che è; come quel fegato che io non ho più “visto” rosso mattone neanche dal macellaio. Ed in quelle affermazioni sono silenziosamente presenti generazioni passate, compagni di lavoro, i propri maestri, le regole di quel linguaggio ed una molteplicita’ di altre mediazioni. Inoltre, sebbene parte dell’apprendimento scientifico consista appunto nell’”educazione” all’osservazione e/o alla costruzione dell’esperimento, il contagio della passione alla conoscenza non si esaurisce nella trasmissione di una pratica. Ogni ricercatore fonda la sua attivita’ scientifica su una condivisione di sentimenti e su una storia personale che si dissolvono e si oscurano dietro i meccanismi che disegnano i profili dell’oggettivita’ a cui dover tendere. E’ come se quell’impeto a conoscere che si svela o si consolida negli anni del noviziato, si traducesse nella capacita’ validata intersoggetivamente di sospendere qualsiasi dipendenza dei fenomeni da chi li distingue  e li spiega. La veemenza del desiderio si risolve nell’eclisse dello scienziato ad opera della potenza persuasiva della sua scienza; al suo posto, quel convitato di pietra che chiamiamo terza persona e contemporaneamente il rimando ad una folla di simulacri silenziosi che ne sostengono la validità.

A questo punto, le due prospettive che sembravano escludersi reciprocamente paiono invece partecipare ad uno slargo che unisce.

Da un lato, le considerazioni di Nagel che hanno trovato sostegno nelle riflessioni sulla nostra pratica terapeutica, ci hanno indicato come la mente per costituirsi come ente investigabile deve farlo da una prospettiva personalistica; è il soggetto che solamente, attraverso la mediazione di Altri, può rendere conto di sè. Ma perchè l’esperienza soggettiva  si costituisca come oggetto scientificamente investigabile ciò non basta; è necessario che i processi esperienziali siano distinti secondo delle costanti di costruzione di senso sottoponobili alla validazione intersoggettiva. La distinzione e la validazione degli invarianti esperienziali genera la possibilità di oggettivare il soggettivo, permettendo la creazione di quella fenomenologia oggettiva che, secondo Nagel, “indipendentemente dal suo interesse specifico, può permettere a domande a proposito della base fisica dell’esperienza di assumere una forma piu’ intelligibile. Aspetti della esperienza soggettiva che ammettono questo tipo di descrizione oggettiva possono essere candidati migliori per spiegazioni oggettive di tipo piu’ familiare”(pag.175).

D’altro canto, la distinzione da parte di una comunità di osservatori del  fenomeno da spiegare  è il primo movimento del metodo delle scienze naturali. E’ la stabilità di questa distinzione che rende un fenomeno scientificamente degno di essere indagato ed è così che l’esperienza soggettiva si espone ad una spiegazione naturalistica (Varela, 1999). Questa scienza della soggettività, a cui il paradigma Costruttivista cerca di dar voce, potrebbe orientare le neuroscienze, le scienze mediche e le scienze cognitive alla ricerca di quelle caratteristiche e di quegli invarianti operazionali dell’organismo e del suo SN relativi ai dati ricorrenti dell’esperienza soggettiva. In questa direzione vanno i nostri approfondimenti e i nostri sforzi congiunti con i ricercatori che indagano i processi cerebrali con le tecniche del brain imaging.

Ma in che senso quello spazio bianco che opera una unione, contemporaneamente separa? Quale soglia un tale incontro di prospettive non puo’ insidiare?

Klaus Conrad, circa quaranta anni fa, nell’impostazione teorica della sua opera “La schizofrenia incipiente” (1958) tratteggiava le problematiche che pesavano allora sulla psichiatria. Mentre quella scienza aveva iniziato il suo sviluppo come scienza naturale (sebbene in ritardo rispetto alle altre scienze mediche), agli inizi dello scorso secolo si era aperta una crisi al suo interno, ancora oggi non risolta, che Conrad sintetizzava con queste parole: “Se il nostro interesse è rivolto verso l’uomo malato mentale, perchè la scienza dovrebbe pretendere di studiarlo solamente nel suo essere-oggetto e non nel suo essere-soggetto?” (pag.22). Crisi avvertita nella pratica quotidiana, dove prender partito significava e significa non solo cercar di spiegare la malattia dal punto di vista di meccanismi biochimici a base genetica invece che comprenderla secondo la biografia del malato, ma impostare una diversa attività terapeutica a seconda della posizione scelta.

Conrad  sviluppava la sua analisi ed indirizzava la sua critica soprattutto all’approccio soggettivista ed ai suoi sviluppi, cercando di dare nuovo vigore alla tradizione della psicopatologia iniziata da Jaspers. Parlare di schizofrenia invece che come malattia, come una delle numerose possibilita’ di fallimento della esistenza intesa  come compito, ricercare la genesi del delirio in un progetto di mondo condannato al naufragio che si era andato strutturando, lentamente, sin dall’infanzia, ed altre simili interpretazioni analitico-esistenziali avevano portato la psicopatologia sul terreno dell’antropologia fenomenologica. Giustamente Conrad rivolgendosi a Biswanger sottolineava polemicamente come il considerare tanti progetti di mondo unici ed irrepetibili quanti sono i malati schizofrenici non ci fa incontrare mai cio’ che è specificamente schizofrenico. Non farebbe, pertanto, differenza se al posto dei malati schizofrenici avessimo malati paralitici. L’individualità del malato non può fondare la psicopatologia! D’altro canto, sul versante della psicopatologia clinica Conrad vedeva uno stallo caratterizzato da una tendenza alla parcellizzazione dei fenomeni, dalla ricerca puntigliosa di funzioni costitutive elementari dei fenomeni, tanto che quella scienza  non aveva piu’ compiuto alcun avanzamento dai tempi della sua fondazione. E’ per questo che si era trasformata in fenomenologia antropologica. Ed allora, quale alternativa si poneva alla psicopatologia costretta tra Scilla della spiegazione neurofisiologica e Cariddi della interpretazione analitico-esistenziale? Poichè la psicopatologia è prima di tutto psicologia applicata, secondo Conrad la risposta può venire solo dalla analisi psicologica. “Analisi dei fatti fenomenici senza prendere in considerazione l’esistenza, il progetto del mondo, l’esserci e cioè senza la minima pretesa antropologica”(pag.31). Si smette di studiare il malato nel nome delle indagini sulla malattia!

Ma la risposta al quesito di Conrad non consiste piuttosto nello studio sia del malato che della malattia? E questa indagine non comporta forse una pluralità di metodologie rispettose degli oggetti stessi d’analisi? Non si impone, dunque, insieme alla ricerca delle invarianze lo studio dell’unicità del percorso individuale? E ciò significa che la singolarità di una traiettoria di vita potrà solo essere indagata con metodiche che sono orientate alla comprensione dei motivi,dei contesti, dei pensieri e dell’affettività che sottendono la storia e l’agire individuale. Ogni metodo che cercherà la generalizzazione urtera’ per sempre contro questa soglia! Ecco allora l’esigenza di una psicologia e di una psicopatologia che alla costruzione di categorie che coniugano l’esperienza soggettiva, la fenomenologia oggettiva e gli invarianti operazionali ad essa relativa, faccia coesistere una metodologia volta alla comprensione dell’unicità dell’esperienza personale e della sua storia. Una psicologia ed una psicopatologia costruttivista che fanno proprio quello slogan di Ricoeur: spiegare di più per comprendere meglio.

L’ansia

La parola che designa  quest’emozione cosi’ polimorfa trova le radici in  una varietà etimologica che va dal  termine accadico “hanaqu”, che significa comprimere, costringere, alla forma avverbiale greca “agki”, che significa vicino, alla forma verbale “agko”, che significa stringo, soffoco, fino al termine accadico “anhu”, che significa esausto, sfinito, avente necessità. Etimologicamente la parola rinvia ad una molteplicita’ di manifestazioni corporee che oscillano fra lo stato di costrizione e la spossatezza, fra la troppa vicinanza ed il bisogno d’aiuto. Sicuramente a quelle manifestazioni è legata la forma di ansia più viscerale; quell’ansia, cioè, che comincia a essere intrecciata già sin dalle prime fasi dello sviluppo nell’organizzazione dell’agire e del sentire reciproco. Non a caso è sperimentalmente possibile distinguere l’organizzazione d’attaccamento ansioso prima dei due anni. Bowlby lo spiega così: “L’attaccamento ansioso si forma non già perche’ un bambino è stato gratificato in misura eccessiva, come qualche volta si sente sostenere, ma perchè le sue esperienze lo hanno indotto a costruirsi un modello di figura di attaccamento facilmente inaccessibile e/o non disposta a rispondergli quando lui ne ha bisogno. Più il regime è stabile e prevedibile, più l’attaccamento di un bambino tende ad essere sicuro; più il regime è discontinuo e imprevedibile, più l’attaccamento è ansioso”(1975, pag.287). Ciò significa che la incostanza della risposta genitoriale alle richieste di accudimento si traduce per un infante in una imprevedibilità più o meno alta rispetto alla protezione: e ciò limita l’esplorazione. D’altro canto, l’accudimento e la cura genitoriale, pur attivando l’esplorazione, la ostacolano proprio per l’inattendibilita’ del legame. Ne risulta sin dalle prime fasi dello sviluppo quella  oscillazione viscerale, fissata dalle parole antiche, tra costrizione e necessità. Per i bambini con quella organizzazione centrale d’attaccamento, l’ansia segnala visceralmente un pericolo possibile (Arciero, 2002) che a questa età non può che essere confinato alla dimensione concreta. Certamente, ad una maggiore costanza del legame corrisponderà una minore intensità della sensazione di minaccia e viceversa; nell’adultità, la ricchezza del linguaggio traduce la gamma delle variazioni possibili che vanno dalla preoccupazione, all’apprensione, all’inquietudine, fino all’angoscia, al tormento ed al terrore.

L’ansia, dunque, è una emozione che ha a che fare con il tempo, e, cioè, con l’anticipazione del futuro, situandosi sul versante opposto delle emozioni relative all’attesa fiduciosa; il fatto che la minaccia si collochi nel futuro la rende inevitabilmente irreale; è questa la differenza essenziale con la paura elicitata dall’immediatezza del pericolo ed è per questo che l’ansia pur collocandosi nella sfera della paura non può essere ritenuta una emozione basica. Poichè l’ansia è una emozione che si struttura con la organizzazione della temporalita’, si manifesterà con significati e con intensità diversi a seconda di come la  personalità, costituendosi, darà forma narrativamente alla propria dimensione temporale. Pertanto, a diversi stili di personalità corrisponderanno modi differenti di sentire l’ansia.

La variabile fondamentale che sembra regolare la costruzione dell’identità personale è proprio la prevedibilità, da parte del bambino, della risposta genitoriale alla richiesta di prossimità. L’attaccamento ha una portata ontologica! Una reciprocità che si è andata formando sul versante della prevedibilità, permetterà al bambino una differenziazione più netta, marcata e precoce dell’interiorità; la costruzione dell’identità sarà magnetizzata da questa fonte interna e che darà il colorito viscerale alle emozioni (Inward).

Di contro, una mutualità che si èandata organizzando sul versante della inconsistenza o dell’ambiguità o della estrema variabilità della risposta genitoriale, produrrà una più difficile discriminazione degli stati emotivi ed una più ardua demarcazione del mondo interiore; la costruzione dell’identità sarà vincolata dall’esterno, ed il riferimento all’esterno  definira’ la riflessione introspettiva (Outward).

Queste due modalità di costruzione dell’identità personale daranno forma in maniera differente al dominio emotivo. Le identità riferibili alla polarità Inward, come nell’esempio dell’attaccamento ansioso, svilupperanno una centralità più precoce e profonda di quelle emozioni basiche inscritte nel tessuto stesso della vita. Le identità che rimandano al polo outward, che sin dalle prime fasi dello sviluppo si sono organizzate sul primato dell’esterno, risentiranno di  una  indifferenziazione piu’ o meno accentuata  degli stati emozionali.

Per meglio chiarire la differenza fra queste possibilità di emozionarsi, e perciò  fra quel tipo di ansia che abbiamo definito viscerale, e quella caratterizzata da una genesi cognitiva spogliata di visceralita’ propria degli outward, vorrei soffermarmi brevemente sulle riflessioni di Heidegger del ’27, che sembrerebbero  stigmatizzare una delle forme di “angoscia cognitiva” che ha contagiato l’occidente fino ai nostri giorni.

Heidegger assegna all’angoscia (nota 1) un ruolo eccezionale, rivelando lo spirito del fenomenologo che coglie questo sentimento oscuro come una modalità d’essere, invece, che come una deficienza di un ordine positivo. Mentre nel corso della vita, secondo Heidegger, l’esserci si comprende “inautenticamente” a partire dalle attività quotidiane, dalle relazioni con gli altri e, piu in generale, dalle determinazioni di sè dall’esterno, nella condizione angosciata – intesa ontologicamente – tutti gli oggetti abitualmente manipolati perdono di senso; l’esserci è esposto all’insignificatività, al nulla (nota 2). E’ cosi’ costretto ad assumer-si; l’angoscia, che nel suo emergere rivela l’insignificatività del mondo, strappa l’esserci dal suo assorbimento mondano e lo espone alla nudita’ della sua esistenza: ed allora, confrontati al niente, ci si sente “spaesati” ed in “nessun luogo”; angosciati dal vuoto, come se fosse sfondata la volta celeste (Minkoswki, 1945). Cosi’ fa esordio sul palcoscenico del ‘900 la riflessione su quella che un sociologo contemporaneo definirà l’era del vuoto. A partire dagli anni ’50, lo sviluppo progressivo del mondo della tecnica e dei mezzi di comunicazione di massa, generando nuove fonti di determinazioni esterne (che mutano a velocità estremamente rapida) su cui modellare l’interiorità, esporrà l’uomo cronicamente all’ansia della vacuità. Ad essa ed alle sue alterazioni si indirezzeranno nuovi capitoli della psicopatologia: dai disordini alimentari fino ai disturbi dissociativi.

E’ evidente che le  modalità inward e outward di dar forma all’identità personale implicano diversi accessi e differenti possibilità regolative  della sfera emozionale. In accordo con Michael Lewis (1993) individuiamo tre forme distintive del dominio emozionale:

1) Gli stati emozionali che si riferiscono a ricorrenti configurazioni somatiche e/o neurofisiologiche; essi possono corrispondere ad emozioni specifiche (emozioni basiche) a cui si accompagnano specifici stati interni, come nel caso degli Inward; oppure, è l’attività cognitiva e valutativa che determina  emozioni distinte in risposta ad una attivazione autonoma indifferenziata, come nel caso degli Outward.

2) Le esperienze emozionali che per gli Inward corrispondono alla messa a fuoco di stati interni secondo gradi differenti di coscienza e di articolazione; in assenza di focalizzazione, l’esperienza emozionale puònon prender forma anche in presenza dello stato emotivo; per gli Outward, l’esperienza emozionale non deve corrispondere a nessun stato interno, e puo’ emergere anche in assenza dell’attivazione autonomica. Esse dipendono dalla cognizione.

3) Le espressioni emozionali che si riferiscono ai cambiamenti del volto, posturali, vocali e locomotori e che non sono distintivi di nessuna delle modalita’ considerate.

Risulta altresì palese che la regolazione dell’ansia avvertita come fenomeno viscerale è diversa da quella percepita mentalmente. Nel primo caso, l’attivazione ansiosa, a seconda dell’intensità, è amplificata da affetti, memorie, pensieri, immagini, correlati semanticamente con l’evento attivante (semantic priming). Ciò, da un lato, limita la gamma degli aspetti consonanti della situazione in corso, dall’altro facilita l’articolazione cosciente dell’esperienza in corso permettendone la riduzione d’intensità (feeling articulation). Nell’altro caso, poichè l’ansia dipende da determinazioni o da codici interpretativi esterni di natura cognitiva, la sua “creazione” e la sua amplificazione dipendono dalla sfera intellettiva (conceptual priming). Pertanto, la regolazione, oltre che attraverso una articolazione concettuale più puntigliosa, può attuarsi tramite il cambiamento dei parametri interpretativi che muterà qualitativamente l’esperienza emozionale (Arciero, 2002).

Infine, un’ultima riflessione che ci conduce verso i “temi forti” della nostra scuola; da un lato, la fenomenologia oggettiva dell’esperienza ansiosa che ci permette di analizzare l’ansia in relazione alle differenti significati che caratterizzano i diversi stili di personalità, ed a questa si riferisce il capitolo di Maselli e Gaetano. D’altro canto, una considerazione di Gendlin che, quasi a ricordarci la centralita’ irriducibile dell’esperienza personale, riassume con semplicità queste nostre pagine:

“I simboli hanno significato nel senso che sono in grado di generare in noi un significato sentito.Il nostro sentire significato è atto ad essere evocato da un simbolo. La sua funzione è quella di costituire il nostro possesso del significato. Senza di esso i simboli sarebbero meri suoni o oggetti e noi non avremmo senso” (1997, pag.101).


Nota 1. Heidegger usa la parola Angst che in tedesco indica in modo indifferenziato la paura, l’angoscia e l’ansia. Usando il termine angoscia ho scelto di seguire la traduzione italiana di Essere e Tempo di Pietro Chiodi; la traduzione inglese classica di MacQuarrie e Robinson preferisce rendere il vocabolo con anxiety.

Nota 2. L’angoscia ,che come ogni tonalita’ emotiva, e’ comprensione, e’ la comprensione del nulla che obbliga l’esserci ad esistere solamente in vista di se’. Non seguiremo le meditazioni Heideggeriane sull’angoscia e le sue relazioni con la Cura per le quali rimandiamo al capitolo VI di Essere e Tempo ,ed al saggio “Che cos’e’ la metafisica”.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Arciero, G. (2002) “Studi e dialoghi sull’identita’”. Bollati Boringhieri. Torino.
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