In Prima e terza persona. Forme dell’identità e declinazioni del conoscere. ATQUE n. 13 – anno 2013
a cura di F. Desideri, P. F. Pieri

Giampiero Arciero

Il 17 luglio del 1990 ero a Santa Barbara, California. Lavoravo nel dipartimento di Psicologia di quell’Università sotto la direzione del compianto Mike Mahoney, uno dei padri americani della rivoluzione cognitiva. In quella piccola Università, una sorta di cimitero degli elefanti illustri, insegnavano in quegli anni vari premi Nobel e molta gente dell’America accademica, più o meno brillante, era continuamente invitata a dare conferenze. Noi avevamo un laboratorio dove oltre a studiare i resoconti autobiografici, indagavamo sugli stati alterati e sui flussi liberi di coscienza di soggetti in condizione di deprivazione sensoriale. L’orizzonte che guidava i nostri interessi non era però la ricerca sugli stati mentali così cara all’establishment cognitivista di quegli anni, ma proprio quel “C-word” che dai tempi di William James più nessuno osava pronunciare nell’ambito di un discorso scientifico serio sulla psicologia: noi ci occupavamo di “coscienza”.

Quel giorno, il 17 luglio, l’allora presidente George Bush attraverso una dichiarazione pubblica designava la decade iniziata il 1° gennaio del ’90 come “decade del cervello”. L’aspetto più sorprendente era l’enfasi di quel documento indirizzato alla nazione, su un programma decennale di ricerca che aveva al centro un organo: il cervello. Come lanciare una nuova conquista nello spazio!

D’altro canto insieme alla sorpresa, per noi che ci occupavamo di coscienza ci fu la delusione rispetto al contenuto del proclama che riguardava gli aspetti esclusivamente organici e neurologici dell’orientamento della ricerca. Alla psicologia non si faceva alcun cenno, nonostante gli indubbi progressi scientifici del cognitivismo degli anni ’80 nelle sue più diverse articolazioni.

Lo stesso tenore della dichiarazione del presidente Bush lo troviamo in un editoriale di Jones e Mendell apparso dieci anni dopo su «Science». Gli autori, l’uno ex presidente e l’altro presidente in carica della società americana di neuroscienze, tracciavano lo straordinario bilancio della decade che si era conclusa e che aveva portato le neuroscienze a rivestire quel ruolo di riferimento per svariati campi del sapere che per gran parte del ’900 era stato della fisica matematica. La notevole visibilità e il riconoscimento pubblico non erano dovuti solamente agli evidenti successi e alle rinnovate speranze nella lotta contro le malattie gravi, ma anche alla crescita esplosiva del numero di coloro che si definivano neuroscienziati: studiosi che provenivano da una varietà di discipline che apparentemente non avevano nulla a che fare con le neuroscienze. Circa mille nuove iscrizioni l’anno, precisavano Jones e Mendell, individuandone la fonte nel rapido diffondersi delle nuove tecnologie legate all’imaging funzionale o alla genetica molecolare. Era il 1999.

Insieme al trionfo delle neuroscienze quella decade genera però qualcosa di totalmente inatteso che il discorso di Bush sicuramente non supponeva e che nel resoconto di dieci anni dopo passa quasi sotto traccia. nella decade del cervello, ritorna al centro della scena scientifica il problema della coscienza.

Il fatto nuovo non consiste nel porre a tema la coscienza, o la mente; la tradizione filosofica anglosassone aveva continuato a farlo nel corso del ’900 articolando il problema mente-corpo secondo i differenti “–ismi” della filosofia. Forse il punto più suggestivo nell’ambito di quella tradizione era stato sviluppato da Nagel in un celebre articolo del ’74 dal titolo audace: “Che effetto fa essere un pipistrello?”, in cui il filosofo sottolineava che l’utilizzo di una spiegazione oggettiva per render conto di che effetto faccia essere un certo organismo lascia un residuo ineliminabile: vale a dire, cosa resta dell’effetto che fa essere un pipistrello se si rimuove il punto di vista del pipistrello?1

Con l’imporsi delle neuroscienze, il problema della coscienza si pone in una prospettiva inedita. Il fatto nuovo è che si vuole studiare la coscienza con i mezzi e il metodo delle scienze naturali. Infatti il titolo del primo di una serie di convegni interdisciplinari che si terrà a partire dal ’94 ogni anno a Tucson “under the clear desert skies of Arizona”, è esplicito: ‘Toward a Scientific Basis for Consciousness”. Ed è proprio nel corso di questa primo incontro che David Chalmers nel suo intervento delinea la differenza divenuta celebre, tra il problema semplice – le funzioni cognitive che possono essere spiegate invocando meccanismi neuronali o computazionali – e il problema difficile – che permane tale anche dopo aver spiegato i meccanismi e le modalità di esecuzione di funzioni rilevanti. Nell’ambito di un nuovo contesto, il problema difficile ripropone il quesito sull’effetto che fa essere un pipistrello.

Se la sfida consiste nel tentativo di spiegare scientificamente il problema difficile o, come si dirà qualche anno più tardi, di naturalizzare lo studio dei fenomeni coscienti, la possibilità stessa di porre la domanda sull’esperienza in prima persona si fonda sul formidabile impatto generato dalle nuove pratiche legate alle tecnologie di imaging cerebrale (fmri, Spect, Pet, etc.). Attraverso una nuova generazione di macchine – frutto di una serie di lenti progressi in matematica, fisica, in imaging computazionale e clinico oltre che di una serie di battaglie legali, di rivendicazioni concorrenti, di contenziosi sulla priorità dei brevetti fino alla pubblica disputa per il premio Nobel2 – si penetra nell’intimità del viscere piu sacro. È il cervello vivo, in un corpo vivo che sente, che agisce e che pensa, quello che la macchina permette di “profanare”. Quello stesso organo denso che le scienze mediche avevano studiato fino a quel momento solamente al tavolo anatomico o cogliendone dal vivo a malapena qualche manifestazione di superficie attraverso l’eeg. E proprio come fu per Galileo il telescopio,3 la tecnologia delle immagini genera un nuovo dominio osservazionale ed elicita una rinnovata concettualità non solo nell’ambito della cultura medica consolidata ma nelle varie discipline che man mano iniziano a occuparsi del sapere sul cervello.

È solamente da questa prospettiva che si comprende un aspetto che potrebbe sembrare paradossale: la coscienza torna a essere un dominio di studi proprio per lo stesso motivo per cui circa un secolo prima non poteva più esserlo. Questo fatto pone un interrogativo fondamentale: che ruolo gioca la tecnologia nello sviluppo della conoscenza delle scienze naturali?

È questo dunque l’ ambito in cui appare e gradualmente diventa dominante nel dibattito scientifico il problema della prima e della terza persona e della loro relazione.

Ma un’altra peculiarità caratterizza il confronto interdisciplinare su questi temi, articolati per qualche decennio lungo le traiettorie disegnate dalle conferenze annuali di Tucson e sviluppati essenzialmente attorno al «Journal of Conscioussness Studies». La psicologia che fino agli inizi degli anni ’90 aveva un ruolo ancora di primo piano viene gradualmente a sparire dalla scena. Dopo aver atteso per un secolo,proprio quando lo studio della esperienza richiedeva una scienza che fosse in grado finalmente di riprendere le fila di quella ricerca che James aveva fatto sua e che il positivismo logico aveva reciso,la psicologia si dissolve. A poco a poco essa viene fagocitata dalle neuroscienze, che la metabilizzano assorbendone anche la differenziazione in branche:esse diventano neuroscienze cognitive, affettive, sociali, comportamentali, evolutive, cliniche etc. tanto che Gazzaniga, da quella stessa università in cui noi alla fine degli anni ’80 studiavamo con Mahoney i flussi e le variazioni delle coscienze individuali, annuncerà la morte della psicologia: «Psychology itself is dead”.4

E in effetti, proprio mentre l’esperienza in prima persona diventa tema d’indagine delle scienze naturali essa contemporaneamente esce dalla sfera di interesse della psicologia che non ha strumenti né un metodo autonomo – che non sia quello delle scienze naturali – per affrontarne lo studio.

Quale relazione c’è fra la fine della psicologia, lo sviluppa delle tecnologie dell’imaging cerebrale e il problema della prima e terza persona? Perché la psicologia non è stata in grado di assumersi il compito che l’evoluzione della ricerca le imponeva? Su che fondamento essa viene riassorbita dalle neuroscienze? E come le neuroscienze si fanno carico della questione della prima e terza persona?

Sono questi i quesiti che guideranno la decostruzione del problema della fine della psicologia che sembra essere il risultato più evidente del dibattito ormai ventennale sulla prima e terza persona.

La traiettoria visiva

Ogni ricerca sull’uomo è orientata dalla maniera in cui è concepita la sua natura, la sua essenza. Tale direzione dello sguardo assunta spesso senza essere messa a tema, guida il modo di porre le domande e quindi il procedere della ricerca stessa. E così, il come un problema è formulato già nasconde i profili delle possibili risposte ed è inseparabile da una decisione – più o meno consapevole – che potremmo definire ontologica. Essa riguarda la modalità secondo cui ci si fa carico della questione sempre preliminare relativa alla natura stessa dell’essere uomo.

Pertanto, impostare il problema della prima persona nella prospettiva di come dare scientificamente conto dell’ effetto che fa essere un sé contemporaneamente implica come un dato di fatto, proprio una visione della natura di quel sé. Il problema della posizione in prima persona è posto cioè solo a partire da un punto di vista per cui è previamente già deciso cosa significa essere un sé.

Del resto la risposta che Chalmers fornisce nel suo famoso paper del ’95 tradisce proprio questa impostazione ontologica che costituirà lo sfondo comune di tutti coloro che lungo il solco delle conferenze di Tucson hanno preso sul serio il problema della coscienza: «I argue that if we move to a new kind of nonreductive explanation – scrive Chalmers –, a naturalistic account of consciousness can be given. I put forward my own candidate for such an account: a nonreductive theory based on principles of structural coherence and organizational invariance and a double-aspect view of information».5 Ciò che si staglia sullo sfondo è una visione ferma di chi è l’uomo: egli è “il sé”, è l’invariante, è ciò che permanendo lo stesso nel corso dell’esistenza è consapevole di sé e contemporaneamente delle molteplicità delle sue esperienze.

Non fa grande differenza se alla luce di questo modo di intendere l’essere dell’uomo ci si affannerà a cogliere le regolarità fenomeniche interpretandole come la manifestazione delle convinzioni o dei desideri del soggetto, come pretende Dennett6 poggiandosi sui dati di Damasio,7 o se si cercheranno attraverso analisi eidetico-riducenti gli invarianti esperienziali che risaltano nelle variazioni per studiare come l’emergere di una certa esperienza cosciente prenda forma nell’ambito di una relazione reciproca con l’attività neurale che a essa si accompagna, come fanno i neurofenomenologi seguendo le intuizioni di Varela.8

Nel 2004, a distanza di dieci anni dal primo incontro di Tucson, C. Whitehead, invitato dal «Journal of Conscioussness Studies» a recensire i temi del convegno così fotografa la divisione dell’influenza fra i due approcci più rappresentativi: «By 2002 the triumph of cognocentrism was virtually complete, at least at the plenary level. Of 40 plenary papers, 32 came from cognitive neuroscientists and artificial intelligence investigators.There were only five plenary papers on phenomenology, and three on emergent phenomena and downward causation».9 Questa differenza di penetrazione è forse riconducibile a una maggiore semplicità operazionale del cognoparadigm rispetto all’approccio trascendentale, tanto che C. Whitehead chiosa: «I have nothing against the cognitive sciences, but the cognoparadigm is not only disembodied and individualistic, it is profoundly impoverished».

Così, anche in questo nuovo contesto dominato perlopiù dalle neuroscienze, la prospettiva ontologica di fondo non messa a tema genera la stessa tensione epistemologica fra le diverse correnti che si era presentata nel corso della rivoluzione cognitiva. Ma proprio come allora, gli attori in gioco – affaccendati ad affermare le proprie ragioni, i propri programmi di ricerca e a gestire i propri luoghi di influenza – non si pongono il problema della prospettiva ontologica che ne orienta la visione comune. Dietro le dispute, essi sono uniti da un modo comune di concepire la natura dell’uomo che assumono senza mettere a tema: ciò che li guida è una visione antica dell’uomo – la cui origine risale al mondo greco – caratterizzata dalla determinazione anticipata della sua natura secondo le categorie della produzione.

Per il pensiero antico, ciò che orienta l’atteggiamento produttore è un sapere che porta alla realizzazione del prodotto a partire da una idea che per esempio lo scultore ha per la statua, il falegname per il tavolo o l’architetto per la casa che vogliono realizzare. Il modello della produzione con tutta la concettualità che lo accompagna viene trasferito da ciò che è messo in movimento attraverso il produrre, dal mondo degli artefatti, alla comprensione di ciò che si muove da sé: alla vita (zoé). L’ontologia antica cioè interpreta la vita a partire dalle categorie ontologiche relative all’esperienza pratica della produzione e manipolazione degli enti disponibili nel mondo, generando quella visione tecnologica dell’uomo che resta sullo sfondo delle scienze naturali e su cui Bichat baserà la fisiologia scientifica.

Per essa, gli enti naturali sono presenti nel mondo non come prodotti da qualcuno ma come emergenti, come auto-organizzanti se stessi. In tal senso un ente naturale, il Sé, emerge e si raccoglie nella presenza, e così permane immutato nel tempo e immutabilmente sta alla base di tutte le qualità mutevoli.

Secondo questa prospettiva dunque è previamente già deciso cosa significa essere un sé, e a partire da questa determinazione è anche decisa la traiettoria visiva che guida il procedere della ricerca. Ciò che è posto a comune fondamento è il concepire la motilità della vita alla luce del paradigma della produzione riconducendo ogni non ancora, alla continua presenza: quel presente costante che rende l’oggetto disponibile, manipolabile e afferrabile teoreticamente.

È questa l’idea di uomo fatta propria da tutti quelli che a partire da Tucson fino a oggi hanno indirizzato i loro sforzi verso una scienza naturale della coscienza.

Se dunque l’ontologia antica ha determinato l’orientamento prima delle scienze cognitive e poi della ricerca scientifico-naturale sulla coscienza, concependo l’organismo vivente come un artefatto tecnico-computazionale, è evidente che lo studio della esperienza in prima o in terza persona non può che articolarsi lungo questa prospettiva. La fine della psicologia si genera infatti quando l’idea guida di organismo – che orienta la psicologia fisiologica – permetterà alle neuroscienze, grazie alle nuove tecnologie, di afferrare l’esperienza allo stato nascente guardandone la sorgente al presente. Una sconcertante evidenza in questa direzione si coglie ad esempio nel come le neuroscienze sociali trattino e credano di afferrare il problema della comprensione del significato riportandone la genesi alla dinamica neurale in atto e quindi in realtà devitalizzando l’esperienza effettiva e destoricizzando la vita.

La crisi terminale della psicologia, fatta emergere dal ritorno sulla scena della esperienza in prima persona, per noi diventa il punto di accesso a partire dal quale chiarire i contesti originari di senso secondo cui una tale visione penetrò nelle scienze naturali sviluppandosi fino a determinare la situazione attuale.

Kant e il debito impensato

C’è un debito manifesto verso Kant, da molto tempo riconosciuto dagli studiosi:un debito epistemologico secondo cui ogni possibile oggetto di conoscenza, cosi come il conoscere, è soggetto a una duplice determinazione: all’intuizione e al concetto.

Ma verso Kant c’è un debito impensato, un debito ontologico che è passato completamente inosservato.

Quando Kant appropriandosi dell’ontologia antica e della visione esemplare della produzione che la caratterizzava, chiarì “la questione della cosa” affermando che la percezione autentica dell’ente si ha solo per colui che lo produce e che quindi a noi esseri finiti è precluso l’accesso alla cosa in sé, in realtà fornì alle generazioni future nutrite dalla luce illuminista unindicazione epistemologica formidabile, che ancora oggi domina incontrastata e incontrastabile.10

L’essenza di questa indicazione risuona in una frase di Emil du Bois-Reymonds scritta al suo amico Helmholtz nel 1852 per manifestargli il suo entusiasmo rispetto alla messa a punto da parte di quest’ultimo del suo ultimo strumento per la misurazione della corrente elettrica durante la contrazione di un muscolo della rana: «It is a spectacle for Gods,to see the muscles working like the cylinders of a steam engine».11

È la riproducibilità tecnica la nuova direzione salutata con entusiasmo dal messaggio di Du Bois-Reymonds all’amico. L’atteggiamento produttore diventa la chiave per la comprensione dei fenomeni naturali ed entra nel cuore della ricerca scientifica.

Ciò è ribadito con grande forza in un corso di lezioni raccolte in un testo, “The recent progress on Theory of vision”, tenute da Helmholtz dopo il completamento dei suoi volumi di Ottica Fisiologica. Nella prima sezione dell’articolo, dal titolo significativo: “The eye as an optical instrument”, Helmholtz – dopo aver colto alcune imperfezioni dell’occhio umano a partire dalla perfezione di una serie di strumenti ottici – scrive: «Now it is not too much to say that if an optician wanted to sell me an instrument which had all these defects, I should think myself quite justified in blaming his carelessness in the strongest terms, and giving him back his instrument».12

Lo scienziato per comprendere i fenomeni naturali li riproduce con una perfezione a loro superiore. Questo è lo spettacolo di cui anche gli dei godrebbero!

L’aspetto decisivo è che dall’ontologia antica – di cui Helmholtz si appropria attraverso la mediazione di Fichte – nasce quella connessione epistemica tra corpo e tecnologia che caratterizzerà da un lato i modelli e le metafore utilizzati nella ricerca sul cervello fino alle attuali neuroscienze e d’altro canto lo sviluppo di una tecnologia che rispecchia le funzioni neuronali attraverso strumenti meccanici o elettrici, e oggi computazionali. È questa la sfera originaria di senso in cui la tecnologia diventa parte integrante delle scienze naturali.

L’aspetto che meglio caratterizza la nuova posizione epistemologica di cui Helmholtz fu il rappresentante più acuto – è la centralità dell’esperimento. Per Helmholtz la funzione di testare l’ipotesi è solo secondaria; l’esperimento è per lui molto più una ars inveniendi (invenzione) piuttosto che ars demostrandi. La funzione dell’esperimento consiste per Helmholtz nel trovare le condizioni causali di un evento e per far questo occorre intervenire nel mondo cambiandone le circostanze. L’esperimento cioè permette di cogliere le condizioni iniziali di una concatenazione causale di eventi che si producono a partire dalla attività voluntaria, e dall’intervento dello sperimentatore.

Alla luce di questa prospettiva diventa allora leggibile uno strano, o meglio straordinario binomio che Helmholtz mette in gioco nella sua attività di ricerca in fisiologia sensoriale e che costituirà il fondamento della psicologia fisiologica: l’accoppiamento fra la pratica introspettiva – adoperata come modalità d’ accesso al dominio delle sensazioni pure – e l’utilizzo formidabile di una molteplicità di tecnologie legate a una varietà di nuovi mezzi tecnologici: elettrici, fotografici e dispositivi d’iscrizione telegrafica. Visti da questa prospettiva gli studi di Wundt – sia sul sistema di percezione interna che la grande quantità di ricerche empiriche – non sono altro che una ripetizione e moltiplicazione di questa impostazione.

Questa singolare combinazione nasconde in realtà un metodo operativo che sarà ripreso dai costruttivisti e poi dai neurofenomenologi: da un lato, l’introspezione permette la distinzione del fenomeno da studiare, tanto che Helmholtz a chiare lettere dice nel terzo volume della sua “Ottica”: «the first thing we have to learn is to pay heed to our individual sensations».13 Egli infatti mostra una grande padronanza non solo nella sua abilità a discriminare un set di toni primari fondamentali nella fisiologia acustica ma anche nei suoi studi della percezione dei colori che confermarono la ipotesi di Young, nelle sue ricerche sulle immagini residue, sui contrasti simultanei, sull’irradiazione, sulla rivalità retinica fino alle osservazioni sulla percezione delle relazioni nello spazio.

D’altro canto per spiegare il fenomeno distinto è proposto un meccanismo materializzato in uno strumento in grado non solo di riprodurre come risultato del suo funzionamento il fenomeno stesso ma anche di permettere la manipolazione, la ricombinazione, e la comparazione dei dati così prodotti. Come Lenoir con grande acume sottolinea «(…) the new technologies were a resource for representing the scientific object, and that in their material form they were not just “representatives” of an object described by theory; rather they created the space within which the scientific objects, “eye and ear”, existed in a material form».14

Nasce qui il problema della prima e della terza persona, della loro relazione e del coinvolgimento strutturale della tecnologia intesa come un dominio che non solo materializza la spiegazione ma che determina gli orientamenti della ricerca.

È in questa prospettiva che si comprende perché Helmholtz concepì il sistema nervoso come un telegrafo e le sue appendici – gli organi di senso – come apparato multimediale.

È in questo modo che l’ontologia della produzione orienta lo sguardo delle scienze naturali.

La ri-costruzione “tecnologica” è basata sulla struttura anatomica da cui hanno origine i comportamenti osservati. Così, ad esempio nel caso della fisiologia acustica lo studio delle tonalità fondamentali è basata sulle cellule ciliate di Corti, e quello della visione dei colori sulle specifiche terminazioni nervose dei coni e bastoncelli della retina. Ma il punto fondamentale è che la ricostruzione è compiuta avendo di mira la conformità del comportamento osservato con il comportamento riprodotto. Da questa prospettiva inevitabilmente la spiegazione del comportamento osservato corrisponde al meccanismo “materializzato”, in grado di riprodurlo. Da qui anche l’insistenza di Helmholtz sull’esperimento e sulla insufficienza della sola osservazione senza la manipolazione attiva, non solo nella ricerca scientifica, ma più in generale per la conoscenza umana, come Fichte aveva mostrato.

Il problema che aveva posto Fichte riguardava proprio l’origine della differente consapevolezza del mondo esterno e di quello del sé,origine che egli aveva indicato nella libera attività del soggetto che conosce (self) e che trova una determinazione effettiva attraverso la resistenza (nonself) che il mondo gli oppone.

Helmoltz riprende questo modo di pensare l’uomo. E infatti il nucleo centrale della sua epistemologia fisiologica consiste nel fatto che la certezza di sé, e la diversa consapevolezza di sé versus non-sé deriva proprio dalla manipolazione pratica di un mondo che esiste autonomamente; è solo attraverso una tale attività che il soggetto mentre coglie i limiti della propria azione (sé) – continuamente scoprendo se stesso nell’esperienza – distingue il mondo esterno determinato spazialmente (non – sé).

Il sé, in quanto attività pura trova le sue determinazioni attraverso il non sé. In tal modo Helmholtz si appropria del carattere fondante della azione pratica: della fatticità di Fichte.

E proprio come Fichte, egli pone a fondamento della consapevolezza preriflessiva dei limiti e delle possibilità dell’agire effettivo e del sentire, i meccanismi fisiologici associati al muscular feeling inteso come quella condizione che ci permette di percepire i cambiamenti di posizione delle parti del corpo attraverso l’azione muscolare. In tal modo egli ancora il corpo, che Fichte aveva inteso come un sistema di responsività e di spontaneità, nel muscular feeling.

Questo modo di concepire la corporeità che fonda la visione di von Helmholtz avrà una notevole influenza non solo sulla fenomenologia di Husserl – il cui ciclo di lezioni “Ding und Raum” si lascia per ciò interpretare da una nuova prospettiva – ma in maniera ancora più evidente su quel tentativo, oggi in pieno sviluppo, di porre al centro della ricerca neuroscientifica il tema dell’embodiement a cui spesso è associata la prospettiva in prima persona.

Tra le pieghe della consapevolezza dell’agency in perception che Fichte per primo aveva intravisto, su cui Helmholtz aveva basato la sua psicologia fisiologica e che giungerà fino ai nostri giorni, si affacciò nella seconda metà dell’800 una concezione assolutamente nuova dell’a priori a partire dalla quale, come vedremo, Rudolph Magnus svilupperà il suo programma di ricerca.

L’epistemologia sperimentale

Nel 1871 Helmholtz lascia la cattedra di Fisiologia di Heidelberg per quella di Fisica dell’Università di Berlino. È scelto come suo successore W. Kühne, allievo tra gli altri di Du Bois-Reymond – anch’egli come Helmholtz di cui fu amico – pupillo di Johannes Müller.Sotto l’egida di W. Kühne preparò la sua tesi nel 1898 Rudolf Magnus, che, per il programma di ricerca che sviluppò e portò avanti, può in un certo senso essere considerato l’ultimo grande erede di von Helmholtz.

Il tema centrale che attraversa la ricerca di Magnus in continuità con la tradizione neo-kantiana ha a che fare con la distinzione di quelle condizioni che permettono di porre il corpo, colto come unità, a fondamento delle nostre possibilità di conoscenza. Se Helmholtz aveva sottolineato come la natura delle nostre impressioni è determinata a priori dai nostri apparati sensoriali – le forme trascendentali dell’intuizione e del pensiero di Kant – ancorati nel feeling muscolare del corpo, Magnus allarga e approfondisce questa prospettiva. Il problema che si pone Magnus è di come rendere conto attraverso la fisiologia delle condizioni di possibilità stessa dell’azione, in vista di una concezione più ampia dell’a priori che gli fa scorgere come quel carattere fondazionale dell’azione pratica, centrale nel pensiero prima di Fichte e poi di Helmholtz, sia inestricabilmente connesso con le percezioni sensoriali nell’unità organismica. Da questa prospettiva si comprende perché il suo programma di ricerca empirica è orientato allo studio di quei riflessi che sono presenti a priori e che attraverso la coordinazione di centri sottocorticali si compongono nella “postura”, intesa come un processo attivo di organizzazione globale della muscolatura del corpo.15 Perciò egli può dire che «Every movement starts from and ends in some pusture». L’azione dei riflessi dunque contribuisce a determinare le nostre percezioni sensoriali a priori configurando di fatto l’a priori fisiologico nei termini di unità sensomotoria sempre in corso (ongoing).

Alla luce di questa nuova idea di a priori e attraverso una sperimentazione molto serrata, Magnus si appropria del lavoro di Sherrington – che cita con grande ammirazione in ogni suo articolo – sull’azione integrativa del sistema nervoso: «And integration is especially necessary in the case of posture, – scrive Magnus – because nervous excitations arising from very different sense organs are flowing towards the postural centres in the brain-stem, and must be combined so that a harmonising effect will result».16

Lo strano destino di quest’uomo che morì qualche mese prima della assai probabile assegnazione del Nobel, si riflette curiosamente anche nella trasmissione del suo testamento teorico rappresentato da una conferenza dal titolo significativo “The physiological a priori17 – una delle “Linnaean Lectures” che avrebbe dovuto pronunziare alla Standford University – pubblicata solamente postuma. L’interesse di questo testo non risiede solamente nella visione globale offerta da Magnus del suo cammino di comprensione dell’uomo ma nella presenza fra le righe di un dialogo immaginario che evidentemente aveva accompagnato quel cammino: l’interlocutore era von Helmholtz.

Ciò appare con incredibile chiarezza se si confronta questa lecture con “The Facts of perceptions”, la conferenza che Helmholtz aveva tenuto cinquanta anni prima. Vengono riprese le argomentazioni, approfonditi i temi, sviluppate le indicazioni, chiariti gli argomenti, gli stessi presenti nel testo di Helmholtz, e su questo sfondo Magnus innesta il suo proprio contributo: «We possess numerous mechanisms – egli scrive – acting unconsciously and partly sub-cortically which prepare the work beforehand for our psyche, and the results of which are a priori present before sensory perception and psychological awareness come into play».18 Lo stato del nostro corpo inteso come una unità sensomotoria è il fondamento a priori del come intuiamo e pensiamo il mondo, la cui realtà è altrimenti inattingibile. Questo è il cuore del lavoro di Magnus.

Alla morte di Magnus la cattedra di Fisiologia rimase vacante. Dusser de Barenne che era stato suo stretto collaboratore concorse per l’assegnazione di quella posizione ma per ragioni che nulla avevano a che fare con la scienza, come spesso accade, la cattedra fu assegnata a qualcun altro. Dusser de Barenne abbandona l’Olanda per Yale dove, per studiare le strutture del sistema nervoso centrale correlate con le sensazioni corporee, continua a portare avanti quella stessa procedura sperimentale sviluppata negli studi con Magnus: l’applicazione locale di stricnina, che consisteva nella applicazione di quella sostanza su vaste aree corticali combinata con l’osservazione clinica della esagerata risposta degli animali alla stimolazione.

Il punto fondamentale che sembra trasparire dal lavoro di Dusser de Barenne, in linea con la tradizione fisiologica neokantiana a cui apparteneva, è però ancora una volta e ancora in un nuovo modo, quello della ricerca delle basi fisiologiche dell’a priori. Dusser de Barenne le cerca nella integrazione corticale, e la sua abilità empirica è al continuo servizio di questo principio che sembra orientare tutta la sua intelligenza sperimentale.

Egli cerca di dimostrare come l’a priori è piuttosto da cogliere nella organizzazione e l’integrazione delle funzioni sensomotorie nella corteccia cerebrale: corteccia che grazie a un sistema di connessioni neuronali funziona come una unità integrata.

Lo studio di questa integrazione è dunque declinato attraverso tecniche sia elettriche (registrazione elettrica) che chimiche (stricnizzazione locale) che mentre rappresentano un potente strumento per delimitare l’origine e la terminazione di neuroni nel sistema nervoso centrale, nello stesso tempo preparano quella trasformazione epocale che darà luogo alle scienze e tecnologie della cognizione e che vedrà in McCulloch il principale artefice.

Questo modo di procedere contribuisce a chiarire un aspetto importante di quella trasformazione messa in luce dalla Sheets-Johnstone quando dice che «the de-animation of perception and the rise of cognitivist science are two intimately related phenomena».19 La ragione evidente di questo fatto ha infatti a che fare proprio con la pratica sperimentale. McCulloch lo ribadisce con chiarezza: «When one is working on the physics and chemistry of the anesthetized brain, as I was, one is doing biophysics and biochemistry necessary for neurophysiology, but falling short of physiology because the nervous system is then deprived of its functions; but even if it were working properly it would still be only physics and chemistry and not physiology unless one were studying the function also».20 Infatti il neurofisiologo che anestetizza il cervello per studiarne i meccanismi, le connessioni e l’organizzazione, lo isola, in quanto unità coerente, da un contesto e quindi si disinteressa ai rapporti con l’esterno. Gran parte dello straordinario sforzo dei cibernetici va in questa direzione.21

La svolta cognitiva

Questa è la tradizione in cui si innesta la ricerca di McCulloch e nel cui ambito, solamente, può essere compresa la portata del suo progetto. McCulloch osa indagare le basi fisiologiche del puro intelletto, il luogo secondo Kant da cui originano i principi di ogni verità:i giudizi sintetici a priori. Di fronte a tale compito lo stesso Helmholtz un secolo prima si era arrestato.

McCulloch affronta questa straordinaria sfida utilizzando la stessa strategia di ricerca di Helmholtz sostenuta dalla medesima ontologia:il debito impensato nei confronti di Kant. Quella ontologia mai messa a tema che come abbiamo visto, in continuità con quella antica, coglie la natura delle cose a partire dalla visione paradigmatica della produzione; cioè la cosa in quanto creata in conformità al disegno di colui che la crea è accessibile pienamente solo al suo artefice… e McCulloch voleva spiegare la produzione dei giudizi sintetici a priori riproducendo il funzionamento dell’organo in grado di generarli: il cervello.

Così, per McCulloch, le proprietà di una rete neurale potevano in teoria essere comprese attraverso una logica binaria i cui principi erano incarnati nel cervello e nei suoi neuroni – neuroni definiti logicamente caratterizzati da un funzionamento on-off (0 – 1). «The all – or – none law of nervous activity – scrivono McCulloch e Pitts nel loro famoso paper del ’43 – is sufficient to insure that the activity of any neuron may be represented as a proposition. Physiological relations existing among nervous activities correspond, of course, to relations among propositions».22 Il cervello è paragonabile a una macchina che opera attraverso deduzione. Una macchina che, partendo da regole operazionali sarebbe in grado di ordinare l’esperienza concreta: sarebbe cioè capace di “pensare”.

In tal modo, nel solco della tradizione kantiana inaugurata da Helmholtz, poteva essere ricostruito il fondamento fisiologico dei giudizi sintetici a priori proponendo come meccanismo capace di dar forma all’esperienza, un network di neuroni definiti logicamente incarnati nel cervello. Lo spirito è incarnato nel meccanismo!

A differenza però di Helmholtz che concepiva l’esperimento come ri-produzione di una concatenazione di cause fisiche in grado di spiegare il fenomeno osservato a partire dall’intervento attivo e volontario dello sperimentatore, in questo caso l’esperimento viene per così dire liberato dall’azione concreta del ricercatore. McCulloch dematerializza la neurofisiologia attribuendo un ruolo nuovo alla modellizzazione matematica e di fatto matematizzando i fenomeni neurali.23

L’assiomatizzazione – intesa come schema fondamentale e supporto di ogni rete concepibile teoricamente – apre così un nuovo spazio per sua natura ibrido, poiché essa mentre permette la ri-costruzione di una realtà preesistente che in tal modo contribuisce a convalidare, nello stesso tempo si regge proprio su quegli elementi (neuroni reali) da cui astrae.24 Inoltre, se l’attività di ogni singolo neurone può essere rappresentata come una proposizione, il risultato più significativo è che questa modalità logico – matematico di concepire i fatti del cervello fornisce il criterio, lo schema fondamentale, secondo cui comprendere quantitativamente anche gli stati mentali. La mente che emerge dalle regolarità delle interazioni neuronali diventa un oggetto misurabile, e ben localizzato nella testa.

E dunque, se viene stabilita una eguaglianza fra le operazioni della ragione e quelle di neuroni a logica binaria, la mente che compie l’assiomatizzazione e quella che ne è l’oggetto rappresentano due polarità correlate ma distinte.

Questo è un punto cruciale. Infatti, la diversa posizione assunta nei confronti di questa dialettica caratterizzerà i differenti orientamenti della psicologia e delle scienze cognitive.

Quando la cognizione è guardata dalla prospettiva del computer – come fece il cognitivismo (linguistica, ai, psicologia cognitiva) a partire dalla fine degli anni ’50 – essa non può che essere definita come information processing psychology. Come cioè computazioni di rappresentazioni, basate su regole (esplicite o implicite), più o meno appropriate del mondo reale. Da questa prospettiva l’esperienza in prima persona, come per Turing o Dennett, è riformulabile in termini ingegneristici.

Se invece guardiamo la cognizione ancora a partire dalla sua versione meccanizzata, ma organizzata secondo una architettura basata – piuttosto che su un framework di circuiti logici espressamente progettati – sulla cooperazione di neuroni logici le cui regole di connessione variano in base all’esperienza, essa appare come l’emergenza di una proprietà globale del sistema. Questa traiettoria sfocerà nel “connectionist modelling framework” e nelle teorie dell’auto organizzazione. Un esempio celebre di tale approccio è il modello della personalità di Cloninger, mentre nell’ambito delle neuroscienze va gradualmente affermandosi la “unified brain theory” di Friston.25 Da questa prospettiva l’esperienza in prima persona è il prodotto emergente della cooperativitàdi singole unità altamente interconnesse fra loro che costituiscono un sistema dinamico evolvente nel tempo.

Una terza posizione infine, che raccoglie le due polarità in una sola presa, fu la direzione inaugurata dal celebre articolo del ’59 di Lettvin e Maturana ”What the frog ‘s eye tells the frog’s brain”.26 Gli autori mostrarono che la rana generava e specificava la sua relazione con l’ambiente a partire da una organizzazione del suo sistema visivo grazie alla quale essa individuava visivamente ciò che nel contesto era significativamente specie-specifico (i.e. insetti, vermi, o qualsiasi altro oggetto della stessa taglia oppure nemici da evitare). Le diverse esperienze percettive che la rana aveva del suo mondo riflettevano cioè la sua struttura percettivo-motoria piuttosto che rappresentare una realtà esterna. È la nota d’avvio della seconda cibernetica il cui mantra reciterà che la realtà è costruita invece che rappresentata.

Da qui, la famosa circolarità presagita da Magnus, che permetterà a Maturana e Varela27 di cogliere quella mutua specificazione fra un certo modo di essere e l’apparenza del mondo, fra il soggetto conoscente e l’oggettività adottata. Pertanto, se ogni organismo negozia la propria sopravvivenza generando a fronte degli stimoli significativi dell’ambiente strutture percettivo-motorie determinate dalla propria organizzazione biologica, l’a priori fisiologico non è localizzabile nella testa ma concerne tutti i sistemi viventi nella loro relazione con l’ambiente in cui vivono e che contribuiscono a portare avanti. Il concetto chiave e la cornice di comprensione della dinamica di tutti gli esseri viventi è quello di autonomia biologica. La caratteristica essenziale del sistema autonomo è la sua organizzazione chiusa, circolare e autoreferenziale che, attraverso la generazione meccanica di una coerenza operazionale stabile, crea regolarità interne e quindi la differenza fra un interno e un esterno. Dal punto di vista del sistema, l’esterno in quanto tale è sprovvisto di senso (nonsensical) a meno che non generi un mutamento dello stato interno: diventa allora perturbazione. Una individualità autonoma mantiene così la sua identità facendo fronte alle modificazioni ambientali con un cambiamento della dinamica delle proprie operazioni.

Cinquanta anni dopo la famosa domanda di McCulloch che si chiedeva se effettivamente la mente fosse nella testa, Varela infatti dirà che la mente «is in this non-place of the co-determination of inner and outer».28

Questa strada condurrà fino alla neurofenomenologia il cui programma di ricerca si articolerà intorno a un problema cruciale: come può una spiegazione oggettiva di processi biofisici dar conto dell’origine dell’esperienza soggettiva? Su un altro piano si ripropone la dialettica aperta dalla prima cibernetica fra l’esperienza e la sua modellizzazione, dialettica a cui la neurofenomenologia propone un nuovo orientamento: «We need to advance a cognitive science where there is a true circulation between lived experience and the biological mechanisms in a seamless and mutually illuminating manner».29

Ed è proprio su questa strada che percorreremo per rendere conto di come il kantismo e la epistemologia di Fichte, di cui abbiamo fatto cenno a partire dal suo incontro con la fisiologia a opera di Helmoltz, penetri attraverso la neurofenomenologia nelle neuroscienze.30

Le neuroscienze trascendentali. Prima e terza persona nella neurofenomenologia

Poichè la posizione della neurofenomenologia rappresenta fra le alternative emerse, sicuramente il tentativo più interessante di fondazione di una scienza naturale dell’esperienza è necessario specificare con maggiore chiarezza i due aspetti che essa mette a tema e che ritroviamo nel dibattito attuale sugli approcci allo studio dell’esperienza.

Da un lato, sottolineando la chiusura (operazionale) dell’organismo inteso come un sistema autonomo, è messa in primo piano la generazione meccanica (in termini di operazioni interne) del mondo di rilevanze che noi portiamo avanti nel corso della nostra esistenza. Tale mondo è inseparabile dal costante impegno senso-motorio del sistema in relazione alle circostanze ambientali.

D’altro canto l’enfasi è posta sull’esperienza in prima persona: l’Individuo cosciente che mentre incontra il mondo che abita contemporaneamente fa esperienza di sé. Tale esperienza – che dalla prospettiva dell’organizzazione biologica risulta essere il prodotto emergente delle operazioni compiute dal sistema per mantenere stabile la sua identità organismica – è sempre coniugata e concorde con il dominio delle perturbazioni ambientali significative che un individuo incarnato e situato nel mondo distingue nella sua vita effettiva.

Le due prospettive richiedono due metodologie d’indagine che la neurofenomenologia propone di intrecciare: l’una, l’approccio in terza persona che coglie l’io dal punto di vista del meccanismo e della dinamica organizzazionale del sistema. L’altra, il punto di vista della prima persona, che coglie l’io dalla prospettiva della posizione assoluta.

Il come coniugare queste due angolazioni pone dunque il problema di come far coesistere una metodologia atta a cogliere l’accadere della prima persona, cioè osservazioni ed esperienze individuali, con un approccio in terza persona ai fenomeni naturali, le cui caretteristiche definitorie si riferiscono a proprietà di eventi del mondo. La proposta metodologica della neurofenomenologia è interessante: essa mette di nuovo a tema quella commistione paradossale fra introspezione e sguardo oggettivo che aveva caratterizzato la ricerca di Helmholtz collegandoli questa volta, attraverso una complementarietà riflessiva.

Il rapporto fra l’esperienza e i mezzi usati per riprodurla e per spiegarla, che Helmholtz aveva inaugurato e che McCulloch aveva formalizzato, Varela lo ricostruisce ricomponendone gli equilibrii attraverso una riflessività ricorsiva, una riflessività cioé la cui struttura torna su di sé (la chiusura autoreferenziale) nel corso della sua attuazione. E dunque,invece che studiare l’esperienza a partire da un modello, egli disciplina l’esperire attraverso la pratica – per esempio fenomenologica oppure di meditazione o introspettiva – per poi studiare in laboratorio le relative risposte cerebrali; a loro volta però i segni della dinamica neurale (dynamical neural signatures) interpretati a partire dal resoconto in prima persona pongono alla relativa pratica nuove domande e nuove possibilità di sviluppo. Per questo Varela31 può dire che naturalizza la fenomenologia ma anche che “fenomenologizza” le neuroscienze.

In cosa consiste concretamente questa nuova posizione?

Dal punto di vista dello scienziato naturale, questa proposta si traduce in diverse tappe: A) la distinzione nell’ambito dell’esperienza soggettiva di in un certo dominio per cui si rende necessario un definita metodologia in prima persona (i.e. l’approccio fenomenologico o quello introspettivo, o la pratica meditativa etc.). Il soggetto cioè attraverso la pratica fenomenologica o quella meditativa, o quella introspettiva, impara a eseguire una metodologia disciplinata di distinzione dei fenomeni che l’esercizio stesso della pratica fa emergere; B) un resoconto esplicito di tale distinzione suscettibile di convalida intersoggettiva a partire dal terreno comune della condivisione della pratica; C) la costruzione di un meccanismo in grado di generare il fenomeno osservato come risultato della dinamica interna delle sue operazioni, e cioè di generare la validazione della pratica per mezzo dei risultati. Questa ricostruzione esplicativa del fenomeno è però a sua volta sottomessa alla validazione dei risultati da parte del soggetto che ha fatto l’esperienza effettiva, di fatto assegnando al vissuto in prima persona (disciplinato dalla pratica) un valore di conferma epistemologica e aprendo così uno spazio di co-determinazione fra l’esperienza e la sua modellizzazione. I vincoli reciproci fra esperienza fenomenologica e dinamica cerebrale.

Secondo la Depraz, che ha avuto una parte di primo piano in questo progetto, «Varela conferisce un ruolo effettivo alla fenomenologia nell’analisi empirica e assegna di ritorno un potere causativo fattuale all’analisi empirica sul senso della fenomenologia. Al di là della semplice irriducibilità del vissuto in prima persona, vale a dire del solo isomorfismo, che fa giocare una corrispondenza e una compatibilità esterna tra le due analisi si tratta di far apparire la loro co-produttività, ricercando i passaggi generativi che attestano i vincoli mutualmente effettivi».32

Su quali basi la tradizione da cui Varela proviene e di cui è stato l’ultimo grande rappresentante incontra la fenomenologia husserliana?

Abbiamo visto che il passo più significativo compiuto dalla seconda cibernetica fu quello di cercare di sviluppare una epistemologia che prendesse sul serio i rapporti con l’esperienza vissuta. Il problema osservatore osservato fu per decenni uno dei cavalli di battaglia di tutto il movimento che si era sviluppato a partire dagli anni ’70 attorno alla scuola cilena. In verità questo era lo spirito che animava i primi lavori sperimentali di Helmholtz il quale, come più volte sottolineato, coniugava la ricerca empirica con la pratica introspettiva.

Abbiamo anche visto come la epistemologia fisiologica di Helmholtz avesse subìto un’influenza significativa dal progetto filosofico di Fichte e dal suo modo di concepire l’uomo: un uomo che attraverso la manipolazione pratica del mondo scopre, facendone esperienza, i limiti del proprio agire (self) distinguendoli da quelli del mondo (non-self) che così conosce.

Tale impronta fichtiana che mette in gioco il rapporto fra una scienza della conoscenza fondata fisiologicamente e l’esperienza vissuta, passa come un lascito fra i vari protagonisti di questa tradizione sotto il nome di a priori fisiologico fino a configurarsi come l’ipotesi di lavoro della neurofenomenologia. Magnus è il primo che intuisce la necessità di mettere a tema la circolarità riflessiva fra l’esperienza scientifica del ricercatore e la sua conoscenza dei meccanismi fondamentali del suo corpo e del suo sistema nervoso. Questa circolarità sarà tematizzata solamente con la seconda cibernetica senza che ci si ponga più il problema dell’origine concettuale. Le tracce saranno infatti cancellate da una prevalente focalizzazione tecnico-formale.

È Jean Hyppolite – uno dei più autorevoli interpreti francesi dell’idealismo tedesco – che ci permette di metterci su quelle tracce e comprendere come Varela innesta la fenomenologia husserliana sulla sua egologia biologica (che a Fichte rimanda).

La lettura che Hyppolite33 fa di Fichte, prende le mosse da un nucleo centrale, in cui egli cerca di annodare le intenzioni filosofiche di Fichte con i temi profondi della fenomenologia husserliana. Il nucleo centrale è il progetto di una scienza delle scienze, di una epistemologia, che per essere rigorosa deve trovare fondamento su una base assoluta che non ha bisogno di reggersi su null’altro che non sia se stessa. Perciò Fichte procede – secondo Hyppolite – con una metodologia che insieme all’esposizione e articolazione di quella scienza delle scienze che gli stava a cuore, mira a mettere a nudo l’esperienza originaria – esperienza vissuta – che ne è a fondamento e di cui quella scienza è esplicitazione: «Un fondement absolu ne peut etre tel que s’il est à lui meme son propre objet et sa propre garantie» – sottolinea Hyppolite.34

Tale esperienza fondamentale dello spirito umano Fichte la trova nell’azione pratica. È solamente agendo sugli oggetti in vista di un fine e osservando i risultati del proprio libero agire che il soggetto diviene consapevole di sé in quanto auto-determinantesi.

Ma perché l’agire pratico è un fondamento ab-soluto? Se fosse effettivamente tale, l’attività riflessiva dovrebbe dirigersi solo su di sé invece che essere centrifuga e dirigersi sull’oggetto.

La scoperta di Fichte, l’io puro di Fichte, corrisponde alla chiusura ricorsiva della riflessione su di sé attraverso l’apertura all’incontro. Pertanto l’attività riflessiva è centrifuga (potremmo dire con Hyppolite: intenzionale), e dunque aperta all’incontro proprio perché è solo attraverso l’incontro che l’io può rifletter-si; l’incontro dell’altro è solo scoperta di sé. D’altro canto l’incontro non è possibile, non è sensato, se non come riflessione.35

Ecco dunque il punto fondamentale che Hyppolite coglie nella sua interpretazione di Fichte: «Le savoir absolu, le savoir dans l’immanence, ne s’oppose pas à la richesse indéfinie de l’expérience, il montre comment cette richesse est possible; la fermature du savoir absolu n’exclut pas l’ouverture de l’experience».36

Ed è proprio in questo senso che Varela si muove sulle orme di Fichte.Come Fichte infatti egli mette tra parentesi la dualità soggettivo-oggettivo su cui si fonda la coscienza naturale per scoprire un nuovo dominio di fenomeni che per Fichte corrispondono alla posizione assoluta dell’io (Ichheit) e per Varela all’autonomia biologica. Fichte prima di Husserl, attraverso una riduzione fenomenologica radicale porta a manifestazione un campo originario, l’esperienza della pura attività, e la pone a fondamento della produzione del senso. Questa è la posizione assoluta dell’io che acquista le sue determinazioni solo in relazione a un mondo che incontra e che gli si oppone (Anstoss). Per Varela quell’io corrisponde alla vita che non puo uscire da sé; la messa tra parentesi dell’attitudine naturale apre cioè il campo all’organizzazione del vivente concepito come sistema che si dà continuamente forma dall’interno in relazione a tutto ciò (le perturbazioni) che dall’esterno sollecita trasformazioni dello stato o della dinamica del sistema.

Risuona in questa visione dell’organismo l’antica lezione di Müller, fatta propria da Helmholtz e assiomatizzata dalla cibernetica, secondo cui gli stimoli esterni tradotti in impulsi nervosi non ci danno informazioni sulla natura dello stimolo ma ne sono solo il segno. Varela radicalizza questo abisso fra l’autonomia dell’organismo e il mondo tanto che lo stimolo esterno è concepito come una perturbazione della dinamica interna: un non-senso che diviene significato solamente attraverso la modificazione della struttura interna dell’organismo (cambiamento strutturale).

È quindi palese che il rapporto con l’ambiente non è comprensibile né in termini d’informazione né di contestualizzazione.

Pertanto sebbene le perturbazioni provengano dall’esterno non veicolano alcun senso dall’esteriorità; il senso coincide invece con la ri-formazione della “meccanica

interna”. «Cognition or behaviours are operational phenomena without final cause: they work in a particular way».37 La conseguenza più evidente e anche la più problematica è che il riconoscimento di una alterità reale è ricondotta sempre alle proprietà del sistema. A partire da questa immanenza integrale posta a fondamento il riconoscimento dell’altro può solo avvenire privandolo della condizione di alterità assoluta. Una teoria dell’incontro senza trascendenza assoluta.

Ma questa privazione rappresenta contemporaneamente il nutrimento dell’io di Fichte e del sistema autonomo di Varela, in quanto è proprio il non-senso – inteso come perturbazione che viene dall’esterno – che alimenta attraverso la produzione di cambiamenti interni la chiusura della riflessione su di séfornendo un contenuto: l’incontro col non–sé. Incontro che dunque elicitando una modificazione interna concorre a far emergere un nuovo senso. È questo il circolo ricorsivo che lega l’incontro alla comprensione.

Attraverso la circolarità – sostenuta dal meccanismo della chiusura della organizzazione delle operazioni accoppiato alla possibilità di modificazione della dinamica interna di quelle stesse operazioni – in un sol colpo l’io e l’alterità si trovano ridefiniti e indissolubilmente legati in una unità. L’uno e l’altro diventano due prospettive di una stessa e unica realtà: dell’identità autoreferenziale o della posizione assoluta dell’io.

In tal senso il tu esiste per un io solamente in rapporto alla dinamica interna delle operazioni che lo costituiscono come sistema, come autoposizione… e così l’io per un tu. L’incontro (Anstoss) con l’altro dunque non è che un appello all’autodeterminazione, e cosi l’io per un altro, in una storia, – quella della intersoggettività intesa come accoppiamento strutturale – in cui le trasformazioni della mia cognizione autoriferita sono perturbazioni per un tu che facendone senso attraverso un ri-strutturazione della sua dinamica interna genera perturbazioni per me… e così via, in un intreccio in cui la propria dinamica interna si sostiene mutualmente su quella altrui, ognuno per sé. E così il rapporto con l’altro non è che rapporto con sé.

Ma in questa riduzione dell’altro a sé si nasconde una grande insidia: confondere la propria conoscenza con quella che l’altro avrebbe di sé. Conservando l’autonomia come suo fondamento centrale, la neurofenomenologia trova, o meglio, è costretta a stabilire nella validazione intersoggettiva il luogo di mediazione fra la prospettiva soggettiva e quella oggettiva. È qui che si fa largo la nozione di empatia mutuata dalla fenomenologia husserliana, che diventa una necessità concettuale e una indicazione metodologica: la seconda persona position, che prende forma attraverso una disciplinata pragmatica esperienziale condivisa. In nessun luogo più che nel laboratorio di neurofenomenologia si realizza quella risonanza empatica che Husserl aveva indicato come sich Hineinphantasieren.

Conclusioni

Di questa posizione “egoistica” del soggetto di Fichte, Schiller scrive a Goethe il 28 ottobre 1794:«A quanto Fichte asserisce oralmente, giacchè nel suo libro non se ne parla ancora, l’io è creatore attraverso le sue rappresentazioni; e ogni realtà è solo nell’io. Per lui il mondo è solo una palla che l’io ha lanciato e che esso riprende nella riflessione!!».38

L’azione pratica, l’inalterabile e inderivabile fattualità, compresa come quel limite estremo oltre il quale non è possible condurre la ricerca – limite quindi della riflessione (autoreferenziale) stessa – è per Fichte un fatto dell’Io, e per Varela della organizzazione biologica. Come sottolinea Kiesel: «The self-positing absolute I of Fichte still does not feel its thrownness, it rather posits and throws the world».39D’altro canto, nei termini della biologia di Varela, potremmo dire che l’auto-organizzazione mantiene la sua stabilità autonoma riferendosi in termini significativi (autoreferenza) le perturbazioni provenienti dal mondo e così porta avanti un mondo.

In ambedue i casi però ciò che si perde di vista – credendo di aver risolto e dissolto l’impostazione sostanzialistica del problema del soggetto attraverso l’enfasi sull’aspetto impermanente ogni volta emergente e molteplice del sé – è ancora una volta proprio quella ontologia antica che supporta queste prospettive. Cosi, la domanda fondamentale sulla natura dell’uomo scivola nell’oscurità. Ciò accade proprio perché non si vede il punto centrale di quella ontologia per cui ogni possibilità di determinazione, ogni possibile forma di emergenza, ogni eventuale posizione linguistica del sé nella conversazione, è compresa alla luce del tempo, inteso come tempo presente: come un entrare e uscire dalla presenza, come un risolversi e consumarsi ogni volta sotto il mio sguardo.

Questo modo di afferrare il sé, preclude la possibilità di cogliere la mobilità, la mutabilità e la storicità dell’uomo sottomettendo il mutamento a ciò che resta inalterato. A una tale prospettiva orientata dalla stessa ontologia della presenza, non sarà cioè mai possibile dar conto dell’essere umano nel suo potere di trasformazione storico, del simultaneo co-esistere – nella possibilità – dell’essere e del non-essere. E potremmo dunque dire che mentre il problema difficile ha condotto la psicologia alla sua fine, aprire un dibattito serio sui fondamenti della psicologia implica ripartire dalla distruzione dell’autorità della prima persona proprio per ricostruire la psicologia.40

Forse questo è il compito di cui farsi carico di fronte al Brain Activity Map Project: la nuova sfida della prossima decade annunciata in questi giorni dall’amministrazione Obama.

1T. Nagel, “What is it like to be a bat?”, in «Philosophical Review», 1974, 83 (October), pp. 435-450.

2A.G. Filler, “The History, Development and Impact of Computed Imaging in Neurological Diagnosis and Neurosurgery: ct, mri, and dti”, 2009,http://precedings.nature.com

3P.K. Feyerabend, Against Method. Outline of an Anarchistic Theoryof Knowledge, Humanities Press, London 1975.

4M.S. Gazzaniga, The mind’s past, University of California Press, 2000.

5D.J. Chalmers, “Facing up to the problem of consciousness”, in «Journal of consciousness studies», 1995, 2.3, pp. 200-219.

6C.D. Dennett, Freedom Evolves, Penguin, London ny 2003.

7R.A. Damasio, Descarteserror:emotion,reason and the human brain, Vintage, London 1994.

8F.J. Varela, “Neurophenomenology: A methodological remedy for the hard problem”, in «Journal of consciousness studies», 1996, 3.4, pp. 330-349.

9C. Whitehead, “Everything I Believe Might Be a Delusion. Whoa! Tucson 2004: Ten years on, and are we any nearer to a Science of Consciousness?”, in «Journal of Consciousness Studies», 2004, 11.12, pp. 68-88, p. 71.

10Così egli scrive: «Es ist schwerlich zu begreifen, wie ein anderer intuitiver Verstand stattfinden sollte als der göttliche. Denn der erkennt in sich als Urgründe (und archetypo) aller Dinge Möglichkeit; aber endliche Wesen können nicht aus sich selbst andere Dinge erkennen, weil sie nicht ihre Urheber sind, es sei denn die blossen Erscheinungen, die sie a priori erkennen können». («È difficile afferrare come un’intelligenza intuitiva potrebbe realizzarsi altrimenti da quella divina. Poichè essa riconosce in se stessa in quanto cause (e archetipi) primordiali, la possibilità di tutte le cose; gli esseri finiti però non possono conoscere da se stessi altre cose, eccetto le mere apparenze che possono conoscere a priori, perché non ne sono i creatori», traduzione mia). I. Kant, Reflexionen(1882), Kants zur kritischen Philosophie by ImmanuelKant, Fues’s Verlag (R. Reisland) edition, Reflexionen 929, p. 261.http://archive.org/details/reflexionenkants00kantuoft. Vedi anche Critica del Giudizio.

11C. Kirsten,Dokumente einer Freundschaft, Briefwechsel zwischen Helmholtzund du Bois-Reymond, Akademie Verlag, Berlin 1986, p. 123.

12H. von Helmholtz, “The Recent Progress of the Theory of Vision” (1868), in «Science and Culture: Popular and Philosophical Essays», a cura di D. Cahan, The University of Chicago Press, Chicago 1995, pp. 127–203, p. 142. Pubblicazione originaria in «Preussische Jahrbücher», vol. 21. Cfr: anche: H. von Helmholtz, “The Facts in Perception”, in «Epistemological Writings», 1977, pp. 115-147. Traduzione di F.L. Malcolm. Dordrecht and Boston: D. Reidel.

13H. von Helmholtz, Treatise on Physiological Optics (1910), vol. 3, p. 7. http://poseidon.sunyopt.edu/BackusLab/Helmholtz/

14T. Lenoir, “Helmholtz and the Materialities of communication, in T.P. Hankins, A. van Helden (a cura di),Instruments and the Production of Scientific Knowledge,volume speciale di Osiris, vol. 9, 1994, pp. 184-207, p. 205.

15R. Magnus, “Some results of studies in the physiology of posture” (1926), in «The Lancet».

16R. Magnus, “Croonian lecture: Animal posture”(1925), Proceedings of the Royal Society of London. Series B, Containing Papers of a Biological Character, 98.690, pp. 339-353, p. 340.

17R. Magnus, A.P.H.A.P. de Kleijn, P.J. Hanzlik,Lane lectures on experimental pharmacology and medicine, vol. 2., Stanford University Press, 1930.

18Ivi, p. 103.

19M. Sheets-Johnstone,The primacy of movement,(2nd expanded edition) John Benjamins Publishing Company, 2011, p. 181.

20W.S. Mc Culloch, “Recollections of the many sources of cybernetics”, in «ASC Forum», Josiah Macy, Jr Foundation, 1974, vol. 6. n. 2.

21Evidentemente è anche a causa dell’ignoranza di questi aspetti che diverse correnti di psicoterapia hanno adottato con leggerezza modellizzazioni che provenivano da questa impostazione dei problemi senza rendersi conto dell’impossibilità dell’impresa, date le caratteristiche relative proprio alla pratica in cui tali modellizzazioni erano radicate.

22W.S. Mc Culloch, S. Warren, W. Pitts. “A logical calculus of the ideas immanent in nervous activity”, in «Bulletin of mathematical biology», 5.4, 1943, 115-133, p. 21.

23Si comprende da questa prospettiva il grande interesse per Craik che sviluppò per primo una psicologia in cui i modelli mentali avevano un ruolo preminente: «Craik thought of human memory as a model of the world with us in it, which we update every tenth of a second for position, every two tenths for velocity, and every three tenths for acceleration as long as we are awake» (W.S. Mc Culloch, “Recollections of the many sources of cybernetics”, cit., p. 10). McCulloch si occupò della pubblicazione postuma dei suoi scritti. Questa linea di ricerca darà luogo alla psicologia dei modelli mentali di Johnson Laird.

24A. Dahan, D. Pestre, “Transferring Formal and mathematical Tools from war management to Political, Technological, and social Intervention (1940-1960)”, in L.M. A.M. Gasca, F. Nicolo (a cura di), Technological Concepts and Mathematical Models in the Evolution of Modern Engineering Systems-Controlling-Managing-Organizing. Berlin, Birkhauser Basel2004, pp. 79-102.

25K. Friston, “The free-energy principle: a unified brain theory?”, in «Nature Reviews Neuroscience», 2010, 11.2, pp. 127-138.

26J.Y. Lettvin, et al., “What the frog’s eye tells the frog’s brain”, in «Proceedings of the ire 47.11: 1940-1951», 1959.

27F.J. Varela, H.R. Maturana, R. Uribe, “Autopoiesis: The organization of living systems, its characterization and a model”, in «Biosystems», 5.4, 1974, pp. 187-196.

28F.J. Varela, “A dimly perceived horizon: The complex meeting ground between physical and inner time”, in «Annals of New York Academy of Sciences», 1999, 879, pp. 143-153.

29F.J. Varela, “Neurophenomenology: A methodological remedy for the hard problem”, cit.

30G. Arciero, G. Bondolfi, Principles of Psychoterapy, in corso di stampa. Cfr. anche G. Arciero, G. Bondolfi, Selfhood, identity and personality styles, Wiley-Blackwell, 2009.

31F.J. Varela, “The specious present, in «Annals of New York Academy of Sciences», 1999, 879.

32N. Depraz, “Mettere al lavoro il metodo fenomenologic”, in M. Cappuccio (a cura di), Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Bruno Mondadori, Milano 2006, pp. 249-269, p. 259.

33J. Hyppolite, “L’idée fichtéenne de la doctrine de la science et le projet husserlien”, in Husserl et la pensée moderne. Actes du deuxième Colloque International de Phénoménologie; Krefeld, 1-3 novembre 1956. Martinus Nijhoff (Phaenomenologica # 2). La Haye; 1959, pp. 173-182.

34Ivi, p. 24.

35Ivi, p. 30.

36Ivi, p. 26.

37F. Varela, “Laying down a path in walking: a biologist’s look at a new biology », in «Cybernetic», 1986,2, pp. 6-15.

38Cit. in M. Heidegger, Schellings Abhandlung über das Wesen der menschlichen Freiheit1809 (Gesamtausgabe Band42), Niemeyer, Tübingen 1936.

39T. Kiesel, in F. Raffoul, E.S. Nelson, Rethinking facticity, vol. 214, 2008, suny Press, p. 64.

40G. Arciero, G. Bondolfi, Principles of Psychoterapy, in corso di stampa.