Giampiero Arciero
Studi e dialoghi sull’identità personale
2002 Bollati Boringhieri, Torino

Recensione di Michele Bracco

Quello dell’identità personale è da sempre uno dei problemi più affascinanti, ma a tratti anche più inquietanti, che non ha mai smesso di meravigliare il pensiero dell’uomo. Capire se al di sotto dei cambiamenti, delle mutazioni, delle alterazioni che caratterizzano la vita di ognuno di noi ci sia qualcosa che invece resiste, che non si lascia intaccare dal divenire inesorabile a cui siamo esposti, non è solo una curiosità filosofica, ma corrisponde ad una domanda originaria che riguarda l’esistenza di tutti.

Già nell’antico racconto degli Argonauti, i mitici esploratori guidati da Giasone in rotta verso la Colchide alla ricerca del Vello d’oro, si fa menzione di quanto accade alla nave di questi celebri navigatori, la quale, nonostante venga continuamente riparata e le vengano sostituiti ex novo tutti i pezzi da cui è composta, si dice che continui a restare sempre la stessa. Questo racconto, che già introduce il tema dell’identità in un modo ancora mitico più che filosofico, ci sollecita a rispondere ad un interrogativo ben preciso: com’è possibile asserire che questa nave, di cui alla fine delle sostituzioni non resta più nulla di originario, sia ancora, e nonostante tutto, la stessa nave di sempre? Che ne è della sua identità? Ma, più di tutto, che ne è della nostra identità se anche noi, pensandoci un po’ come quella nave, ci vediamo in balìa di un divenire che ci trasforma continuamente, che modifica ogni elemento del nostro corpo, ogni contenuto della nostra coscienza e della nostra memoria, ma che, tuttavia, sembra non modificare un nucleo, una immagine, una voce che noi avvertiamo immutati dentro di noi ed a cui facciamo corrispondere la nostra identità?

Mosso da quella infinita meraviglia che questo tema non smette di suscitare, Giampiero Arciero, psichiatra, vi ha dedicato uno studio approfondito e ben documentato, attuando una ricerca ad ampio raggio e muovendosi tra differenti versanti del sapere a partire da quello filosofico, in cui il problema dell’identità ha trovato la sua prima elaborazione concettuale di tipo sistematico. Per far questo, l’Autore si preoccupa di illustrare quelle che sono le due posizioni teoretiche antagoniste, la prima caratteristica dell’età moderna e la seconda di quella postmoderna, rispetto alle quali l’Io viene pensato ora come una entità sostanziale, stabile, che mantiene la propria identità assoluta pur nella mutevolezza delle proprie esperienze, ora come una entità evanescente, diffratta in una molteplicità anonima di Sé, priva di ogni confine, quasi uno “sciame” o una “nebbia”, per dirla con Deleuze e Guattari, oppure, per dirla con Foucault, un uomo “disegnato” sulla riva del mare, dai confini solo accennati, precari, labili, e dunque destinati perennemente a dissolversi.

Al fine di risolvere una dialettica tra moderni e postmoderni, che finirebbe per risultare alquanto sterile se mantenuta come un’opposizione irresolubile, Arciero propone piuttosto di recuperare le categorie della “storia” e del “senso” – retaggio dell’ermeneutica di Gadamer la prima e della fenomenologia di Husserl la seconda – per meglio comprendere un problema così complesso alla cui possibile soluzione può contribuire il recupero del concetto di “identità narrativa”, che egli riprende dal filosofo Paul Ricoeur e che poi elabora e sviluppa in molteplici altre direzioni in maniera personale ed interessante. Concetto, questo di identità narrativa, il cui valore sarebbe quello di ricomporre il dinamismo dell’esperienza vitale di ognuno nell’unità di senso di una storia: «La riconfigurazione dell’esperienza, attraverso la costruzione del racconto, raccoglie nell’unità della storia in corso il senso di permanenza dei moderni con i Sé molteplici dei postmoderni, fra la continuità e la mutevolezza. Il processo d’identità si dispiega così in un presente dinamico, teso fra lo spazio dell’esperienza (il passato) e l’orizzonte dell’aspettativa (il futuro), e la cui relazione muta nell’arco della nostra vita finita. La struttura temporale dell’esperienza, piuttosto che essere frammentata in una molteplicità di Sé situazionali o cristallizzata in un Sé sostanziale, prende forma, in un dinamismo continuo, nella costruzione dell’identità del personaggio e della storia, che permane nel continuo fluire di una vita» [p. 34].

Persuaso che nel flusso dei differenti vissuti della coscienza, nell’avvicendarsi delle molteplici esperienze esistenziali, nel susseguirsi dei giochi linguistici sia comunque ravvisabile un “chi” capace di conferire unità di senso alla molteplicità delle situazioni in virtù dell’unità di discorso e di determinare una possibile continuità del Sé, il nostro psichiatra riconosce come determinante per la definizione dell’identità personale il valore assoluto della relazione con l’altro. Facendosi carico di quelle che sono state le intuizioni più feconde della fenomenologia classica, Arciero illustra con estrema chiarezza come l’identità di ciascuno di noi si costruisca, oppure si perda, a partire dal rapporto originario che ci lega da sempre al nostro simile, nei termini di una reciprocità – che però è anche “asimmetria” – la quale sottrae l’individuo ad una chiusura monadica come quella del solipsismo cartesiano, chiusura di un ego solitario fatto di puro pensiero, e lo restituisce invece ad un contesto di vita che è essenzialmente di natura intersoggettiva.

Inoltre, va detto che la costituzione dell’identità si compie sempre e solo a partire da una relazione “affettiva” che mi lega all’altro e che lega questo a me in un modo indissolubile, in un doppio legame, in un double bind o in quello che Merleau-Ponty definirebbe un “chiasmo”, in cui si decide, per così dire, quella che sarà la sorte, il destino di ciascuno dei due: «Nel fenomeno dell’affettività che si incarna nel viso, si lascia cogliere un doppio movimento. Da un lato, un’intenzionalità che prende origine con il mio esistere e si rivolge all’altro; d’altro canto, il movimento dell’altro verso di me, la sua affezione. Il sorriso, l’indifferenza e la violenza con cui l’altro mi si rivolge, e che rinvia al mio potere di rispondere, o alla possibilità di subire» [p. 59]. Potere di rispondere o possibilità di subire che rappresentano un dilemma primariamente etico, direi, prima che teorico o semplicemente deontologico, e che non può non richiamare alla mente pagine indimenticabili come quelle di Emmanuel Lévinas, ad esempio, a cui lo stesso Arciero si rifà in alcuni luoghi del suo testo.

Ma qual è il contributo che tali indagini teoriche possono apportare nell’ambito dell’agire psichiatrico e della prassi terapeutica? Ebbene, se tutto il campo della malattia, se tutto il versante dei modelli psicotici di pensiero e di comportamento saranno interpretati alla luce delle categorie del senso dei vissuti di ciascuno e della storia di vita in cui essi si configurano nell’unità di una identità che è essenzialmente narrativa, la quale a volte racconta di coerenze e continuità, altre volte invece di fratture e di disfacimenti, il malato eviterà di sparire nell’anonimato della malattia e le scienze psichiatriche eviteranno di cadere nelle fauci di un riduzionismo che baratta l’efficacia chimica con la menzogna ideologica: «La riduzione dell’esperienza personale a processi di biochimica cerebrale autorizza, cioè, a trattare il disordine mentale come un evento neutro, forse geneticamente determinato, che accade nel mio cervello. Da queste premesse non può che conseguire un’epistemologia impersonale, che orienta l’identificazione dei disturbi psicopatologici sulla base delle manifestazioni cliniche (causalmente connesse a modificazioni biochimiche), eliminando l’esistenza distinta della persona» [p. 93].

L’identità personale, dunque, non è mai una acquisizione assoluta, una conquista fatta una volta per tutte, ma un intero processo, continuamente in fieri, a volte faticoso, estenuante, carico di sofferenza, un cammino costellato di cadute e di riprese, di successi e di fallimenti, lungo il quale colui che lo vive va alla ricerca del senso della propria esperienza, per giungere ad una comprensione di sé in quanto soggetto narrativo ed i cui confini, i cui margini, non sono imposti da una qualche forma metafisica, ma coincidono con la continuità del racconto di sé, dal momento che, per dirla con Ricoeur, «l’identità della storia fa l’identità del suo protagonista». La malattia, allora, può essere concepita come una situazione esistenziale di difficoltà o di assoluta incapacità nel mantenere l’unità narrativa, nel riordinare il contenuto delle proprie esperienze in una trama di senso unitaria capace di definire, di demarcare, il soggetto rispetto al mondo, l’Io rispetto alle cose ed agli altri, la sfera del proprio rispetto a quella dell’altrui. Questo significa non solo che l’altro a cui mi rapporto e verso cui mi muovo non può essere visto come un oggetto, dal momento che la sua identità non si dà mai in maniera assoluta da poter essere per così dire afferrata d’un sol colpo nella presa di un atto conoscitivo, ma che nell’incontro con l’altro sono in gioco entrambe le nostre identità personali, che si definiscono reciprocamente in virtù della relazione che le lega l’una all’altra. Solo a partire da queste premesse è possibile incontrare l’altro e instaurare con lui una relazione letteralmente “personale”: «La comprensione dell’altro come persona significa che a ogni disvelarsi dell’altro, che io riconosco come unico, corrisponde una nuova articolazione della mia interiorità, che rinnova l’equilibrio raggiunto e che continuamente mi mette in gioco nel processo di reciprocità» [p. 166].

Il libro di Arciero contribuisce in modo meritorio a chiarire che l’identità personale non è mai una acquisizione solitaria, quasi autistica dell’individuo, ma si definisce nell’arco intero di una vita, condivisa con i propri simili in quel rapporto di reciprocità che caratterizza l’esistenza umana già dalla primissima infanzia, e ci offre anche una possibile soluzione dell’enigma da cui siamo partiti: la nostra identità, così come quella della nave, starebbe tutta non tanto nell’assetto della sua forma materiale, né nell’unità di una fantomatica forma ideale, quanto in quella particolarissima unità conferitale da un “racconto” che ancora si tramanda nel tempo. L’identità di ciascuno, quindi, come l’identità di quella mitica nave, è come se non smettesse mai di realizzarsi, di delinearsi, di acquisire una propria fisionomia nel circolo infinito delle interpretazioni e del dire proprio e altrui, nel racconto fatto da se stessi ed in quello fatto dagli altri; circolo ermeneutico che non si chiude mai neanche alla fine di una vita, quando la testimonianza di chi resta tiene vivo il ricordo di chi non c’è più e l’amico e maestro scomparso, evocato nostalgicamente da Arciero all’inizio del prologo, si definisce ancora nella propria identità come pura “voce” interiore, che giorno dopo giorno, in un dialogo silenzioso e accorato, si fa e rimane inestinguibile e rassicurante presenza.